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“Quando la violenza nega la giustizia”: Convegno promosso dalla rete dei centri antiviolenza D.i.Re

 

“Il 23 luglio, se sarà confermato da calendario parlamentare un ulteriore passaggio su ddl Pillon e collegati, torneremo in piazza con le realtà che in questi mesi si sono mobilitate, per tutte le donne che già vivono difficoltà nei tribunali italiani e nei loro percorsi di libertà”. Lo ha annunciato la presidente di D.i.Re-Donne in Rete contro la Violenza, Raffaella Palladino, al termine del convegno organizzato in collaborazione con il canale DireDonne dell’Agenzia Dire ‘Violenza contro le donne e affido dei minori. Quando la giustizia nega la violenza’.

Deborah Ballesio è morta di mancanza di prevenzione. La denuncia non basta se non è seguita dall’applicazione delle norme. Quando gli uomini escono dal carcere, ad esempio, la legge riconosce alle donne il diritto di venirne a conoscenza e questo di fatto non avviene”. Lo ha detto Lella Palladino, presidente della rete dei centri antiviolenza D.i.Re, a margine del convegno che si è svolto oggi alla Dire su ‘Violenza contro le donne e affido dei minori’ commentando l’uccisione della donna a Savona che aveva denunciato il suo ex per ben 19 volte. Il tema della violenza infatti non è solo legato alla difesa e alla tutela delle donne, ma anche e soprattutto alla promozione di una cultura della prevenzione. Un tema molto a cuore alla rete D.i.Re che la presidente ha ribadito commentando la presentazione, non ancora completa, dell’indagine Istat Cnr sui centri antiviolenza. “Dal 2014- ha sottolineato Palladino- continuiamo a ripetere che i criteri minimi che sono stati stabiliti per definire i centri antiviolenza e le case rifugio non bastano. Non si tiene conto della differenza tra quelli femministi che offrono servizi specialistici riconosciuti dalla Convenzione di Istanbul dall’universo di offerta che è fiorita in modo scomposta e improvvisata su tutti i territori. Agli istituti di ricerca statistica come al Dipartimento delle Pari opportunità chiediamo che si distingua tra chi non solo le protegge e le tutela, ma previene la violenza”.

La Commissione sul femminicidio “al termine del mandato consegnerà al Senato una relazione conclusiva sull’indicazione di alcuni tragitti da seguire. Il compito dei lavori della Commissione è quello di accendere un faro sulle criticità che persistono: nei tribunali civili, ad esempio, rispetto alla sottrazione della potestà genitoriale verso le donne che denunciano e scelgono di interrompere un rapporto violento. Si entra vittima e si rischia di finirnee carnefice: la famosa vittimizzazione secondaria con il rischio che i minori finiscano al padre maltrattante o in casa famiglia.

E’ un vulnus che abbiamo scelto di aggredire. Invieremo un questionario a tutte le Corti d’Appello per capire perché’ accade questo e perché’ si distingua tra conflitto e violenza”. E’ l’annuncio che la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione sul femminicidio, ha lanciato durante il convegno che si è tenuto oggi alla Dire su ‘Violenza contro le donne e affido dei minori’ promosso dalla rete D.i.Re. “Siamo di fronte ad un rischio di regressione sui diritti delle donne- ha dichiarato a margine del convegno Valente- e a differenza del passato queste spinte regressive si sentono sdoganate da un certo ceto politico e dal modello, oltre che dal linguaggio, sessista che propone. Persiste l’asimmetria tra uomo e donna cresce la violenza- ha aggiunto- e tutto questo oggi viene purtroppo legittimato da un pezzo di politica e di istituzioni. Proviamo a fermare questa deriva”.

Quanto alla cronaca e al recente caso di Savona la presidente ha affermato: “In quel caso siamo di fronte a una denuncia e a una sentenza scontata, quindi dobbiamo interrogarci sull’efficacia delle misure di protezione. Si dovrebbe ragionare-ha ribadito Valente- sulla possibilità di estenderle anche aldilà dello sconto della pena e vincolarle ad una rieducazione del condannato. Ci sono centri per uomini maltrattanti che possono fare questi percorsi e attestarne l’efficacia”.

 

“Sempre più spesso viene messa in discussione la competenza genitoriale delle donne che escono dalla violenza. Se in oltre trent’anni, come rete dei centri antiviolenza, siamo riuscite a rassicurare le donne sul fatto che possono uscire dal matrimonio senza perdere i propri figli, ora le cose stanno evolvendo in modo molto negativo e, ancora prima del Ddl Pillon, nei nostri tribunali si fa uso dell’alienazione parentale contro queste madri”. Sono le parole preoccupate di Raffaella Palladino, presidente di DiReDonne in Rete contro la Violenza, che ha aperto il convegno organizzato stamattina nella sede dell’Agenzia Dire a Roma dalla rete nazionale dei centri antiviolenza, in collaborazione con DireDonne. Tra le relatrici dei tre panel dell’incontro intitolato ‘Violenza contro le donne e affido dei minori. Quando la giustizia nega la violenza’, anche Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio, e Paola Di Nicola, magistrata del Tribunale di Roma. È la sindrome dell’alienazione parentale, comunemente conosciuta come Pas, il “nervo scoperto nella difesa delle donne nei processi civili” per la responsabile delle avvocate civiliste di D.i.Re, Concetta Gentili, che afferma: “Accompagnare una donna nel processo legale civile e minorile è diventata una guerra ed è una guerra far sì che nelle aule di giustizia venga riconosciuta la violenza”. Il problema, per Gentili, è che la giustizia civile e l’intero sistema giudiziario “quasi mai riconoscono la violenza di genere”, così come spesso “non si legano ad essa conseguenze chiare”. Le donne, quindi, “vanno in tribunale consapevoli che non è sicuro che venga riconosciuta la violenza”, una consapevolezza tanto più dolorosa quando ci sono di mezzo i figli.

Sono proprio i bambini i più fragili di fronte ad un sistema che non li ascolta e sembra difendere a tutti i costi il principio della bigenitorialita’, anche in presenza di un uomo maltrattante. Un concetto che si lega a quello di “responsabilità genitoriale, nato nel 2013 con la legge sull’equiparazione degli status. Nei processi si configura un’inversione nella ricerca dell’adeguatezza e anziché’ chiedersi se l’uomo violento sia un genitore adeguato, ci si chiede se la donna che ha subito violenza sia una madre adeguata”. Una “trappola del percorso legale” che spesso si basa sulla Pas, “teorizzata da Richard Gardner e recentemente sconfessata dalla Cassazione”, dice l’avvocata, debitamente sostituita dai suoi fautori con il “criterio dell’accesso”, in base al quale per dimostrare di essere un buon genitore “devi dimostrare di favorire l’accesso all’altro genitore, che è un diritto del figlio, dimenticando di fatto la violenza subita”. Un abuso sulla pelle delle donne e dei bambini che spesso passa dalle Ctu, le Consulenze tecniche d’ufficio, redatte da psicologi, psicoterapeuti o psichiatri nominati dal giudice “perché’ da solo non ha la competenza da valutare”, spiega alla Dire Manuela Ulivi, avvocata civilista e presidente della Casa di accoglienza donne maltrattate di Milano. Capita che “la violenza venga declassata a conflitto, che non venga vista”, dice Ulivi nel corso del convegno portando dei casi concreti e puntando il dito anche sui costi delle consulenze, “3-5mila euro per quello di parte, 2mila per quello d’ufficio”. E capita anche che non venga preso in considerazione il penale, le denunce delle donne, perché’ “la priorità è mantenere il rapporto con entrambe i genitori a tutti i costi, costi poi pagati dai figli, che se non vengono ammazzati spesso sono vittima di omicidio psicologico, ostaggio di padri violenti”.

A leggere le difficoltà delle donne nei tribunali italiani in una cornice politica è Valeria Valente, che entra nel dibattito chiamando in causa il senatore leghista Simone Pillon: “Ieri ha detto una cosa agghiacciante: che la violenza sulle donne non è diversa dalla violenza in generale e non va trattata in maniera distinta”. Il Ddl Pillon “da uno schiaffo a tutte le donne in modo aggressivo e legittima ciò che già accade. Le resistenze, gli elementi regressivi e la messa in discussione dei diritti e degli spazi delle donne sono sempre esistiti, ma oggi sono sdoganati”. Per questo, per la presidente della Commissione sul femminicidio “occorre alzare la voce contro questa deriva culturale”, mentre nei tribunali la parola d’ordine deve essere “formazione”, per fare in modo che “magistrati, psicologi, forze dell’ordine e assistenti sociali siano portatori di un’adeguata cultura, scevra da pregiudizi e stereotipi. Per far emergere ciò che accade- fa sapere Valente- invieremo alle Corti d’appello un questionario molto orientato”.

E la magistrata Paola di Nicola rincara: “Dobbiamo essere controllati sotto il profilo culturale e del sessismo che è dentro le nostre sentenze. La magistratura va controllata e se sbaglia deve pagare un prezzo. Se non ci sono più femminicidi è solo un caso. Non basta indossare una toga o diventare assistente sociale, il giudizio è inquinato dal pregiudizio, che si struttura nel contesto sociale culturale e valoriale in cui cresciamo”.

 

Ci sono delle distorsioni nelle consulenze tecniche d’ufficio (ctu) che fanno capo a dei pregiudizi clinici evidenti”. È questo l’assunto da cui parte Mauro Grimoldi, psicologo e consulente tecnico d’ufficio del tribunale di Milano, al convegno nella sede nazionale dell’Agenzia Dire a Roma “Violenza contro le donne e affido dei minori. Quando la giustizia nega la violenza”, organizzato da D.i.Re-Donne in rete contro la violenza in collaborazione con DireDonne. C’è un innocentismo che basa il possibile errore in cui incorre il consulente tecnico d’ufficio sul fatto che tradizionalmente ci si concentri solo su fenomeni di tipo psichico. La realtà che viene in qualche modo presentata dalle parti- spiega l’esperto- per quanto sia diversa, spesso viene trascurata. In più si pensa erroneamente che i fenomeni di violenza – in particolare intrafamiliare e di genere – debbano essere necessariamente espunti dalla (ctu), essendo considerati un tema di rilevanza solo penale. Non è così, la convenzione di Istanbul in primis e la recente delibera del Csm del maggio 2018 prescrivono con molta chiarezza, come dovere del consulente tecnico d’ufficio in ambito civile, il prendere in considerazione anche gli elementi di rilevanza e di interesse penale e i fatti relativi alla violenza”.

Grimoldi avanza dei consigli per migliorare le ctu. “Considerare quegli elementi che anche la letteratura scientifica indica in grado di produrre pregiudizi sui minori- prosegue lo psicologo- in primis tra questi l’aver assistito o l’aver subito tutti i tipi di violenza che possa subire un bambino. Non è giustificato in nessun modo e da nessuna delle linee guida riguardanti la responsabilità genitoriale il trascurare questo elemento”. Questo primo dato fa capo alla responsabilità del consulente- afferma Grimoldi- il secondo elemento riguarda invece il quesito della consulenza. Il ctu lavora sulla base di una domanda che viene fatta dal giudice, sarebbe opportuno se il giudice inserisse nella domanda degli aspetti di tipo psicologico e quindi di pertinenza delle risposte che deve dare un consulente tecnico, che sia psicologo, psichiatra o neuropsichiatra”. Il consulente tecnico pensa, ad esempio, al “valutare la congruità delle reazioni affettive di un genitore, alla capacità di tollerare la frustrazione o di moderare gli impulsi. Questa sarebbe una domanda corretta alla quale il ctu sarebbe obbligato a rispondere e che attiene a quelli che possono essere, al meno sul piano potenziale, degli episodi di violenza”.

 

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