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Storia della cosmesi

 

 

La cosmesi è un’arte nata nella notte dei tempi. Secolo dopo secolo le sue pratiche mutano assecondando credenze religiose, precetti morali e valenze sociali. Bagni e unguenti rituali nell’antico Egitto, trucco pesante per sedurre nella Roma imperiale, ritrovata sobrietà all’alba della civiltà cristiana, belletti orientali nel Medioevo delle crociate, canoni e armonie nel Rinascimento, biacca e finti nei tra Barocco e Settecento, ritorno alla natura dopo la Rivoluzione e infine la bellezza costruita delle prime case di cosmetici. Oggi, l’ideale di bellezza declina in modelli e canoni infiniti.

Belletti, rituali e prevenzione

Nell’antico Egitto, già nel 3000 a.C., il ricorso al trucco costituisce l’appannaggio della casta sacerdotale, che si dedica allo studio delle materie prime, impara a mescolarle, ne fa un uso liturgico in occasione delle cerimonie sacre. I riti d’iniziazione e le esequie funebri prevedono interventi estetici sul corpo, ed ogni singolo atto ha un significato simbolico e una funzione di prevenzione. Per esempio l’antimonio o Khol, con cui gli egizi si dipingono gli occhi, serve a proteggere dalle infezioni oftalmiche, poiché assicura l’attività delle ghiandole lacrimali. Altrettanto rituali sono gli unguenti a base d’incenso, che consentono di limitare la traspirazione corporea. La casta sacerdotale, depositaria dei segreti della preparazione del trucco, viene imitata da quella dei nobili, detentori delle funzioni amministrative. Attorno al 2500 a.C. compare la distinzione fra la donna dalla carnagione chiara (che resta fra le mura domestiche) e l’uomo dalla pelle scura (che lavora fuori casa), una separazione che sopravviverà intatta fino al XX secolo.

Bellezza faraonica

La pulizia del corpo inizia con un bagno profumato, durante il quale uomini e donne si frizionano con il natron (fango del Nilo), sostanza che si trova in alcuni laghi egizi. Si prosegue con un’esfoliazione di suabu (impasto di ceneri e di argilla) e con un massaggio a base di oli profumati. La pelle viene schiarita con un unguento di pigmento giallo ocra dorato, mentre le vene delle tempie e del busto sono evidenziate da un blu che attenua la brillantezza dell’oro. I contorni degli occhi sono ripassati con il Khol nero secondo un disegno a forma di pesce, mentre gli ombretti ripropongono la vivace tavolozza delle pietre macinate: verde malachite, turchese, terra cotta, ossido nero di rame, carbone; le sopracciglia vengono allungate e scurite. Le ciglia annerite o depilate, le guance rosate, la bocca tinta di rosa o di rosso vivo, rendono ancora più esotico un volto sacralizzato, che porta una parrucca azzurrata. Le unghie levigate di mani e piedi, sono dipinte con l’henné, secondo un disegno simbolico, che protegge dalla polvere del deserto.

Rigore Greco

Mentre l’Egitto brilla di lampi preziosi, la Grecia di Omero (XII-VIII a.C.) conosce solo le pratiche rituali dell’ospitalità e dell’igiene personale. I bagni profumati di ambrosia e i massaggi con oli aromatici sono l’unico ornamento degli eroi e delle eroine greche. L’ideale di bellezza della Grecia arcaica risiede nell’armonioso accordo fra le parti e il tutto. Un’affinità tra proporzioni e forme è il sufficiente attributo al bello. Se il corpo è imperfetto, per migliorarlo si ricorre agli esercizi ginnici, gli unici in grado di restituire una bellezza naturale, non viziata da artifici e trucchi. Ad Atene, dove l’influenza dei trucchi orientali si manifesta in età classica (V-IV a.C.), le donne sono confinate nei ginecei, e la loro carnagione è di un pallore estremo. La donna chiusa in casa a tessere, non esce truccata. In cambio, i giochi notturni destinati al consorte rendono lecito qualche belletto, che ha lo scopo di vivacizzare le sorti di un matrimonio speso combinato. Solo In epoca ellenistica (III-I a.C.), i divieti diventano meno rigidi.

Eccessi Romani

La toletta mattutina della patrizia romana assomiglia a una gara a ostacoli. Ogni singolo orifizio viene pulito e frizionato; il corpo strofinato è sottoposto alla depilazione di petto, braccia, ascelle, gambe, baffetti e narici. La capigliatura è infoltita da inserzioni di capelli indiani (scuri) o germanici (biondi o rossi). I denti, quando non sono finti, vengono strofinati con polvere di corno sminuzzato. L’alito si profuma col prezzemolo; eruzioni cutanee e verruche vengono nascoste sotto finti nei. Il volto è schiarito, gli occhi sono incupiti dall’antimonio o dallo zafferano. Il mondo della decadenza romana teme la deriva igienica e tenta di prevenire il disastro con bagni termali, lozioni e balsami. E’ indubbio che gli eccessi della cucina romana favoriscano l’insorgere di dermatosi, chiazze cutanee e aliti pesanti che occorre dissimulare. Mentre il corpo greco perseguiva, attraverso la ginnastica, l’ideale della bellezza radiosa dell’atleta, il corpo romano, tradito da una dieta pesante, rischia di snaturarsi mentre è ancora in vita.

Bagni e unguenti: Addio

Quando invadono la Gallia, i romani non trovano, come si sarebbe immaginato, delle creature trascurate, ma uomini e donne esperti nell’arte del trucco. In assenza di fonti, gli utensili ritrovati nei tumuli funebri documentano la presenza di pratiche legate alla cura del corpo e dei capelli. In effetti, il progressivo declino del paganesimo e la caduta dell’Impero romano non comportano la scomparsa degli antichi rituali di bellezza, che sopravvivono a Bisanzio. Il processo di cristianizzazione coincide con il trionfo di pudore e austerità, confortata in questo dalle Lettere di san Paolo e dalle condanne del profeta Isaia contro l’impudicizia delle fanciulle, punite dall’Eterno per la loro civetteria. La sporcizia si ammanta di virtù celesti e le imprecazioni dei Padri della Chiesa (dal III al V sec. d.C.) contribuiscono, insieme alla scomparsa del paganesimo, ad un graduale distacco da bagni e belletti. Inoltre le invasioni dei barbari non lasciano spazio a quella disponibilità di tempo che rende possibile l’attenzione del corpo e la conseguente cura del proprio aspetto.

La Ninfa medievale

Con la mediazione dei crociati, che dall’Oriente portano le pratiche della toletta musulmana, l’antimonio e gli unguenti ricompaiono fra le mani delle donne. Al XIII e XIV secolo risalgono i trattati di medicina, oltre ai manoscritti con i segreti di bellezza della tradizione delle corti, che verranno stampati nel ‘500. Questi testi codificano dei canoni estetici che la pittura fisserà per sempre. La bellezza medievale è quella dell’adolescenza, perché a venticinque anni, è già appesantita dalla maternità, dopo dieci anni è un’eleganza “ricostruita” dal trucco. Bionda, capelli ricci, crespi o raccolti in trecce la donna riluce di un incarnato del candore di un giglio che si estende al collo e alle mani, un colore che simbolizza la sua natura virginale, pura e angelica. Le gote dalle fossette maliziose scintillano e così le labbra, tinte di rosso vermiglio o rosato. La fronte aperta, è depilata, alta e ampia, lucida e risplendente, le sopracciglia sono scure e sottili. Gli occhi sono ridenti, sotto palpebre diafane. Il mento arrotondato, completa un ovale perfetto.

Recupero dell’ideale platonico del bello

La caduta di Bisanzio nel 1453 e l’arrivo in Italia di antichi manoscritti favorisce la penetrazione in Europa delle ricette della Roma imperiale. La riconquista di questi saperi permette di riavvicinarsi alla cura del viso e del corpo. Il canone della ninfa cede il passo alla donna vera e dalle forme arrotondate, anche se per i cultori del bello resta l’icona di una fanciulla bionda dal roseo incarnato. Nel ‘500, l’invenzione della stampa, accelerando l’uso di prescrizioni e ricette, mette in campo le due figure chiave del dispensatore di bellezza: il dottore, dietologo e specialista in ricette provenienti dalla medicina salernitana; la dama, che confeziona di nascosto creme miracolose per trasmettere, elisir di eterna giovinezza e cure magiche. Il prototipo della dama è offerto da Caterina Sforza, autrice degli Experimenta. Il volume di intrugli di bellezza, farmacopea e magia che sarà ulteriormente integrato dai nobili e dai borghesi, fino ad arrivare alle attrici di Otto e Novecento.

L’Epifania Barocca: bionda e diafana

Fautrice della “bellezza barocca” è Caterina de’ Medici. Non c’è bellezza che non sia bionda e le veneziane sono le virtuose della colorazione dei capelli. Usano uno schiarente, detto la “bionda”, poi lasciano asciugare i capelli al sole, sotto un cappello a larghe tese che lascia scoperta la sommità del capo in modo da ottenere delle sfumature fulve. L’incarnato è schiarito con biacca opaca, i denti sono strofinati una volta alla settimana con una mistura di polvere di corallo rosso, nocciolo di pesca e cannella. Le mani vengono sbiancate indossando, di notte, dei guanti al cui interno è stato spalmato miele, mostarda e mandorle amare che al mattino si lava via con oli o acqua piovana. Fanno la loro comparsa i finti nei. Anche gli uomini si truccano per nascondere le ferite inflitte dalla guerra. Alla fine del ‘500, la cura del corpo subirà una flessione che verrà compensata solo con l’avvento dei profumi. Diminuisce l’esigenza di pulizia. E’ l’epoca delle tolette a secco, in cui si friziona il corpo con panni profumati. Il vocabolo francese maquillage è di questo periodo e ha un’accezione negativa (barare, truccare), che conserverà fino all’800.

Rosso d’obbligo sulle gote

Nel corso del Settecento, gli aristocratici provano tutte le varianti del rosso, dal cremisi al rosso/giallo, passando per il lilla, il rosa e l’arancio. Steso su un fondo bianco, più cupo verso le tempie e più luminoso attorno alle labbra, lo si usa sulle guance, ma anche vicino agli occhi. Il rosso maschera il pallore delle notti in bianco e delle cene notturne, che sfiniscono la corte. Gli uomini e le donne della borghesia si appropriano del rosso per emulare la corte, e si colorano le guance con moderazione, sfumandole dal rosa al carminio, secondo l’età. Stimolatore dei sensi o maschera della vecchiaia, il rosso segna il culmine di un’illusione che copre i volti di ogni età, dall’infanzia in poi. Per la notte, le donne indossano un “mezzo-rosso”, a corte impazza il granata. Eppure, anche se la borghesia ne fa un uso più parsimonioso, l’avvicendarsi delle mode lancia, in successione, il lilla, il rosso Serkis e il rosso turco, quest’ultimo assai in voga tra le cortigiane. In realtà si mascherano emozioni e parole confermando i privilegi dell’aristocrazia: ozio, brio e fascino.

Basta un sapone

All’inizio dell’800, la classe borghese si distingue dal ceto proletario per la pulizia e per uno scrupolo d’igiene che andrà affermandosi sempre di più. L’attitudine di fare il bagno cresce di pari passo con diffondersi dell’installazione, negli appartamenti, di stanze da bagno. La medicina promuove il sapone purificatore, cosmetico per eccellenza e l’acqua fresca. La bellezza dell’Impero è pulita, cristallina, purificata con acqua profumata. Non cessa comunque di essere una bellezza bianca e splendente grazie a maschere da notte e a una serie di acque che schiariscono i segni delle rughe. La corrente naturalista cede il passo a quella romantica, che esalta le inquietudini del cuore e le ebbrezze della passione. Nasce una disciplina cosmetica nuova, adatta a celebrare un immaginario inedito: quello della malattia. Il volto si tinge di giallo o di blu. Per dimagrire, le donne bevono aceto, mangiano limoni e dormono poco per procurarsi le occhiaie. Trionfa l’ideale etereo: pallore spettrale, sguardi cupi e profondi con occhi come pozzi scuri.

Il nuovo ideale estetico d’inizio ‘900

A partire dalla fine dell’800, le scoperte scientifiche, accelerano la creazione di nuovi prodotti cosmetici e il divieto all’uso di sostanze tossiche. In questo inizio di secolo l’attenzione è rivolta al corpo e alla sua cura. Le donne opacizzano il volto con la cipria, in varie tonalità cromatiche, secondo il tipo di pelle e infoltiscono le ciglia con il rimmel. Il trucco è coordinato agli abiti, gli smalti ai rossetti; i volti si trasformano velocemente al passo con le mode. Nella anni ’20 le donne scoprono i benefici effetti del sole e il colore che esso dona alla pelle. Dopo la prima guerra mondiale le donne cominciano a lavorare e a disporre di un budget destinato a spese per prodotti di bellezza. Compaiono in questo periodo gli istituti di bellezza e la chirurgia estetica. Quest’ultima nasce negli ospedali militari e ha una rapida ascesa. Essa diventa un beneficio sociale, che prolunga la giovinezza e la capacità di lavoro. Con l’avvento dei mass-media, la donna diventa sempre più attrice di se stessa. Il volto femminile è infedele a tutto, tranne che ai suoi capricci.

Passaporto per un altro stato

Corrono gli anni Sessanta: il paradosso della bellezza contemporanea sta nella standardizzazione dei prodotti, cui risponde un’enorme profusione di modelle. Il movimento femminista, che condanna la donna prigioniera della famiglia e del potere maschile, mette in discussione le cure di bellezza. Intanto, si diffonde la moda dei cosmetici orientali, fatti con sostanze naturali ed economici, che soppiantano eye-liner e mascara prodotti in serie. Negli anni Ottanta si verifica un recupero dei tradizionali strumenti della seduzione, mentre la cura del corpo diventa retaggio di riviste di bellezza. La donna non è più una figura da relegare ai fornelli, ma un essere attivo che produce valore, e lo spirito di competizione con l’uomo la rende più determinata. La bellezza è la nuova posta del gioco politico, economico e sociale, lo strumento per accedere a una professione oppure a una femminilità agguerrita che non dimentica mai la dimensione femminile. La bellezza come dovere verso se stesse e verso gli altri si declina nelle diverse immagini della donna combattiva ed efficiente.

La standardizzazione del volto

Paradossalmente è negli anni Ottanta, gli anni della diversificazione dei cosmetici, dei colori e delle composizioni chimiche, che i volti finiscono per uniformarsi. Volti preconfezionati, da comporre come puzzle firmati dai grandi stilisti, colori da combinare a seconda dell’effetto desiderato. La semantica del look, sinonimo di “apparenza”, sottolinea l’imperialismo dello sguardo rivolto su un volto che ormai si disegna al computer. Cambia anche il vocabolario della terminologia estetica. La pubblicità non parla più di seduzione, mistero o sortilegio ma ricorre a espressioni quali “capitale bellezza”, cure “strategiche”, risorse “energetiche”, “sistema total-look”, come se il corpo fosse diventato un’azienda da gestire. Essere belli equivale a tuffarsi nel mercato dei volti e dei corpi, esibendo il proprio come una merce. La donna ha l’opportunità di segnalare la classe sociale di appartenenza (yuppiesnew waverockerpunktechno, etc.), ribadire l’identità con un clan, o esibire una bellezza rilassata lontana dagli eccessi.

Il mito del “sottovuoto”

Negli anni Novanta l’industria cosmetica deve far fronte a una flessione nelle vendite di smalti e ombretti, e alla nuova tendenza femminile di acquistare prodotti destinati alla cura del corpo più che al trucco. Attratte da un’ideale di “bellezza naturale”, le donne aspirano ad un corpo sano. In questa fine millennio non ci si scolpisce ma ci si massaggia, non ci si trucca ma ci si coccola. Fiale, gel e pillole provvedono dall’interno a limare un corpo naturale, appena abbronzato, rilassato e flessuoso. La rivoluzione degli estratti marini o vegetali, la proibizione di sostanze minerali e di quelle di origine animale (balena, estratti di placenta) promuovono una bellezza che ammette un trucco invisibile. Un paradosso che non cede di fronte alla mistica della natura. Ma è una natura “sottovuoto”, così come il viso, protetto da filtri invisibili, veri e propri schermi fra una pelle fragile e un mondo deteriorato. Si continua, allora, a cercare l’identificazione con i vecchi archetipi della bellezza riproposti fino all’abuso nelle pagine delle riviste.

Poetica dell’ibrido

In risposta alla noia della ripetizione nostalgica alcuni gruppi sociali rivendicano corpi frutto dell’artificio e del gioco. Il tatuaggio ricopre la pelle come un’opera d’arte. Il piercing trasforma alcune parti del corpo in gioielli erotici ed aggressivi. La cancellazione di ogni differenza sessuale provoca disagi. Queste pratiche riflettono una poetica precisa: quella dell’ibrido. Se leggiamo il corpo come cartina-tornasole della società, è indubbio che la bellezza documenti lo stato del mondo contemporaneo: un universo ibrido, fragile dove la cura di sé resta un obiettivo da raggiungere in modo che la cura dell’altro cessi di essere un pericolo.

 

a cura di Francesca Pucci

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