Una ricerca italiana fissa nuovi standard nella cardiologia mondiale e rende possibile l’azzeramento delle liste d’attesa per il bypass in caso di infarto.
Uno studio del Gise – la Società italiana di cardiologia interventistica – ha dimostrato che il modello di strategia invasiva italiana, con coronarografia tempestiva eseguita per via radiale (vale a dire dal polso), consente una migliore prognosi indipendentemente dalla tempistica del trattamento farmacologico. Con i risultati dello studio si potrebbe quindi evitare a circa 80 mila pazienti l’anno una somministrazione a tappeto di potenti farmaci anti-aggreganti prima della coronarografia.
Al momento i tempi di attesa nel caso di bypass per chi ha avuto un precedente trattamento antiaggregante sono di 5-7 giorni. Tempi che, se il paziente non è stato pretrattato, possono essere quasi azzerati. In tempo di Covid-19 si tratta di un risultato ancora più prezioso per la pratica clinica.
Lo studio, spontaneo ed indipendente, è stato valutato ed autorizzato dall’Aifa, l’Agenzia del farmaco, patrocinato e finanziato dal Gise e condotto, sotto la guida di Giuseppe Tarantini, direttore della cardiologia interventistica dell’Università di Padova, e di Giuseppe Musumeci, direttore della cardiologia all’ospedale Mauriziano di Torino, in 30 centri d’eccellenza, distribuiti in tutta Italia. Lo studio è stato pubblicato su «Jacc», il «Journal of the American College of Cardiology», considerata come la più importante rivista mondiale di cardiologia.
«Con lo studio Dubius la ricerca italiana fa scuola a livello mondiale e ridefinisce nuovi standard di trattamento e di prognosi della forma più frequente d’infarto, quella in cui l’arteria non è completamente ostruita», spiega Tarantini, che aggiunge: «Abbiamo dimostrato che una strategia invasiva, entro le 24 ore dall’evento e con approccio radiale (dal polso), incide sui risultati più di quanto faccia la tempistica della terapia farmacologica e rende superflua l’annosa discussione sulla necessità di un trattamento antiaggregante a monte (su tutti i pazienti) oppure a valle (con un trattamento selettivo) della rivascolarizzazione. In Italia ogni anno sono colpite da infarto subendocardico 80 mila persone e di queste 52 mila vengono sottoposte a stent coronarico».
«Con i risultati dello studio potremo, perciò, evitare a circa 80 mila pazienti l’anno una somministrazione a tappeto di potenti antiaggreganti prima della coronarografia, con una riduzione di potenziali effetti collaterali e anche con notevoli ricadute sull’appropriatezza delle cure. Pensiamo a chi, in corso di infarto definito “Nstemi” – di tipo miocardico acuto – deve sottoporsi a bypass coronarico (circa il 6%) oppure a coloro che, dopo la coronarografia, non vedono confermata la diagnosi d’infarto: si tratta di ben il 15%. Al momento i tempi di attesa nel caso di bypass, per chi ha avuto un precedente trattamento antiaggregante, sono di 5-7 giorni. Giornate che il paziente trascorre in ospedale, aumentando di conseguenza i rischi di complicanze e i costi di gestione. Tempi che, se il paziente non è stato pretrattato, possono essere quasi azzerati. In tempo di Covid-19 un risultato ancora più prezioso per la pratica clinica», annuncia il co-investigatore principale dello studio, Giuseppe Musumeci.
E’ un’indagine destinata a rivoluzionare gli standard di trattamento e prognosi rispetto ai precedenti studi internazionali e che potrà avere importanti ricadute, considerato che ogni anno nel mondo si registrano 15 milioni di infarti e 7 milioni di morti per malattie delle coronarie, principalmente legate ad attacco cardiaco», conclude Tarantini. Come spiega Marco Mojoli, cardiologo emodinamista dell’ospedale civile di Pordenone, «lo studio ha dimostrato un’incidenza di eventi avversi gravi (morte, infarto, ictus, sanguinamento) entro 30 giorni dall’arruolamento molto bassa (3%) e numericamente sovrapponibile nei due gruppi di studio. Abbiamo inoltre osservato che il 99% dei pazienti è stato sottoposto a coronarografia, eseguita in oltre il 95% dei casi tramite un’arteria del polso – in linea con la migliore pratica clinica – e non dall’inguine». —
Fonte www.lastampa.it