Anche se il mercato dei prodotti gluten free è in crescita, come lo è il numero delle persone che, senza motivazioni mediche, si astengono dal consumare glutine, il numero dei celiaci è stabile, attorno all’1% della popolazione. Questo numero è però anche altrettanto stabilmente sottostimato, secondo molti esperti, al punto che alcune valutazioni parlano di un solo caso su tre realmente riconosciuto come tale. La celiachia – che è una patologia di tipo autoimmune – continua infatti a essere diagnosticata troppo spesso dopo ritardi, lentezze, errori a causa dell’ambiguità dei sintomi, che possono essere confusi con altri disturbi e malattie gastrointestinali, e che vengono quindi verificati tramite gli esami specifici in un numero di casi insufficiente. Nei mesi di settembre e ottobre, tuttavia, sono stati pubblicati un documento ufficiale e una metanalisi che potrebbero contribuire a modificare la situazione, perché finalmente indicano elementi più specifici per procedere con gli approfondimenti e fattori di rischio da tenere presenti qualora ci sia un sospetto.
Nel primo caso, Nature Reviews on Gastroenterology & Hepatology ha pubblicato un documento rivolto soprattutto a chi fa ricerca e ai clinici. In esso si sottolineano le domande più urgenti sui meccanismi della malattia, la diagnosi, la terapia e la gestione, in base alle evidenze oggi disponibili e a quanto emerso negli Stati Uniti nel marzo 2020 a un workshop della Celiac Disease Foundation e della Society for the Study of Celiac Disease. Ancora oggi, infatti, l’unico trattamento consigliato è la dieta e la presa in carico dei pazienti è, a volte, insoddisfacente. La dieta, oltretutto, non è di aiuto per tutti i malati, e al tempo stesso, negli ultimi anni sono stati proposti approcci diversi (in molti casi basati sull’instaurazione di una tolleranza), alcuni dei quali ancora al vaglio delle sperimentazioni cliniche. Il documento contiene anche un aggiornamento sui test sierologici disponibili e fa il punto sull’effettiva necessità di ricorrere a una biopsia intestinale per avere la diagnosi definitiva.
Il secondo lavoro, pubblicato su Plos One, è invece un’analisi di ben 191 studi dalla quale sono emersi 26 indicatori di sintomi e fattori di rischio. Per quanto concerne i fattori di rischio, ci sono prove convincenti di una possibilità mediamente doppia di avere la malattia per chi ha una dermatite erpetiforme, una storia familiare di celiachia o un certo assetto genetico (l’aplotipo HLA DQ2/DQ8), chi è anemico o ha il diabete di tipo 1 (autoimmune), l’osteoporosi, una malattia epatica cronica o chi soffre di emicrania. Queste due ultime patologie in particolare non sono incluse in tutte le linee guida sui fattori di rischio, ma i ricercatori suggeriscono che sarebbe opportuno farlo. Per chi, infine, ha un parente stretto celiaco, la probabilità diventa addirittura tripla.
Non è confermata la correlazione diretta con altre patologie a volte suggerite come possibili spie della celiachia tra cui epilessia, lupus eritematoso sistemico, predisposizione alle fratture, psoriasi, altre patologie o disturbi intestinali, il diabete di tipo 2 e la sclerosi multipla. Restano invece confermati, in quanto sintomi, la diarrea da malassorbimento, il dolore addominale, il gonfiore e la flatulenza, la difficoltà a digerire, la stitichezza e, a volte, il vomito (soprattutto nei bambini), cui si aggiunge l’anemia, presente quasi sempre. I due lavori, nel loro insieme, aiutano a definire meglio gli ambiti nei quali intensificare le ricerche e a identificare in modo più specifico i soggetti spesso indicati nelle linee guida in modo generico come “persone a rischio”, con la speranza che questo serva ad accelerare e migliorare le diagnosi.
FONTE: IL FATTO ALIMENTARE https://ilfattoalimentare.it/celiachia-quali-sono-i-fattori-di-rischio-e-i-sintomi-da-tenere-docchio-per-una-diagnosi-tempestiva.html