È ancora una sconosciuta per molti. Ma condividerne le testimonianze, i dolori, le storie, sta aiutando molte donne e molte persone ad averne consapevolezza. Fino a trovare nella solidarietà un aiuto e un riscatto. Cecilia Santoro, 44 anni, referente dell’A.P.E. Associazione Progetto Endometriosi a Verona – associazione nazionale che unisce volontarie affette dalla malattia in tutta Italia – conosce bene l’endometriosi, patologia cronica e debilitante, le cui cause non sono ancora note e per la quale non ci sono cure definitive. È una delle 3 milioni di donne, in Italia, che convivono con la complessità di una malattia che ha origine dalla presenza anomala del tessuto che riveste la parete interna dell’utero, chiamato endometrio, in altri organi (ad esempio ovaie, tube, peritoneo, vagina e talvolta anche intestino e vescica), e provoca dolori fortissimi, tanto da limitare la vita quotidiana e lavorativa.
Le è stata diagnostica a 29 anni, dopo circa 15 anni di sofferenze incomprensibili. La sua storia è un faro, che può illuminare le strade piene di ostacoli percorse da tante donne che come lei, tra mille difficoltà, possono ricominciare a vivere.
«Ho l’endometriosi da quando ero una ragazzina. Già a 15 anni perdevo giorni di scuola, perché durante il ciclo avevo dolori pazzeschi, emorragie continue – racconta Cecilia Santoro -. È cominciato da subito il mio pellegrinaggio dai ginecologi, ma senza risultati. Provavo un estremo disagio, perché ero l’unica a stare così male con il ciclo. Non potevo muovermi in quei giorni e prendevo antidolorifici per tenere a bada i dolori. Ma mi vergognavo. La situazione è andata progressivamente peggiorando. I medici mi dicevano che avevo problemi intestinali e sono arrivata a digiunare nei giorni delle mestruazioni pur di soffrire un po’ meno per non andare in bagno. Non ce la facevo più».
Poi alla soglia dei 30 anni è arrivata la diagnosi, grazie ad un ginecologo specializzato che è riuscito a diagnosticarle l’endometriosi all’intestino, facendo una risonanza magnetica ed esami specifici, come il clisma opaco. «Dopo due mesi ero in sala operatoria – continua Cecilia -. Mi hanno tolto 20 cm di intestino e due noduli. La riabilitazione è stata difficile. Pensavo che fosse tutto finito. Non mi avevano spiegato che l’endometriosi è una malattia cronica. Prima della diagnosi non ne sapevo nulla e neanche le mie amiche. Speravo che con l’operazione tornasse tutto a posto. Ma è tornata di nuovo. L’anno seguente, era il 2009, stavo di nuovo male, con dolori lancinanti ai nervi pelvici. Per darmi un po’ di sollievo, mi hanno prospettato la terapia del dolore. Questo è stato il periodo più buio. Il dolore cronico mi stava facendo diventare cattiva, ero sempre di cattivo umore, stavo perdendo il controllo di me». L’incontro con un altro ginecologo esperto le ha permesso di arrivare ad una seconda operazione. Erano poche le conoscenze sull’endometriosi ai nervi pelvici. Intanto, Cecilia ha conosciuto le volontarie di A.P.E. ed ha scoperto di non essere sola, di non essere strana, di essere una delle tante donne che vivono e combattono con questa malattia. «Sono diventata volontaria di A.P.E. e con l’aiuto delle altre, ho lavorato sulle mie frustrazioni, sulla rabbia che l’endometriosi aveva scatenato dentro di me ed ho capito di non essere l’unica. Conoscendo l’A.P.E. sono entrata in contatto con una serie di persone come me e questo mi dà un sacco di forza. Ho capito di poter andare oltre la mia malattia».
Le difficoltà non sono finite. «Con mio marito abbiamo deciso di avere un bambino, che non è arrivato. Abbiamo provato anche con la fecondazione assistita. Mi ha creato una ferita molto profonda. Ho scoperto di avere un altro nodulo di endometriosi ed è stata di nuovo molto dura. Mio marito mi ha sostenuto tantissimo. Avevo 33 anni, ma non volevamo che l’endometriosi mi riducesse di nuovo come anni prima. Ho cominciato la mia terapia e ho smesso di avere il ciclo. Non sapevo come si sarebbe sviluppata la malattia, ma abbiamo messo la pietra sopra alla possibilità di avere figli. Mi sembrava che l’endometriosi mi avesse tolto ogni cosa: la speranza di ritrovare una vita normale, tutto. Poi, ci siamo avvicinati all’idea di adottare un bambino. Abbiamo fatto corsi, colloqui, è stato iter lungo circa 2 anni e mezzo». Un percorso che però ha portato ad esiti positivi, a quello che Cecilia definisce il suo riscatto. «Eravamo in un istituto della Siberia e c’era un silenzio irreale. In attesa, seduta sul divano con mio marito, abbiamo sentito i passi della bambina. Quando è arrivata, mi ha teso le mani, le ho dato la mia mano e ho capito che la mia strada doveva essere quella. È stato come un segno: lei aspettava me e io aspettavo lei. Io ho delle ferite e una storia di sofferenza, ma anche lei veniva dalle ferite. Ognuna di noi ha dato all’altra la possibilità di riscattarsi da un passato doloroso. Ora mia figlia ha 9 anni ed è una mascotte dell’A.P.E.». Quando Cecilia è tornata in Italia, dopo il primo incontro con sua figlia, ha raccontato questa esperienza alle volontarie di A.P.E. «Mi sono state molto vicine e mi hanno dato forza. Si è creata una solidarietà ed un legame che non si possono spiegare. Senza l’A.P.E. non so se sarei riuscita nel mio percorso di trasformazione». Adesso Cecilia vuole essere di aiuto alle donne condividendo la sua storia e si rivolge a loro. «Nel 2021 tutti dovrebbero sapere cos’è l’endometriosi. È dalla conoscenza che parte l’abbattimento del ritardo diagnostico. Quello che vogliamo fare è dare messaggi positivi. Non si può sminuire il dolore delle donne, ci siamo passate. Ma non siamo sole. Ti puoi rivolgere a donne che comprendono cosa significa avere questa malattia e a medici specializzati. Puoi assumere atteggiamenti sani per il tuo fisico. Puoi trovare aiuto nelle persone che sono disponibili e sono pronte ad accoglierti». Con la consapevolezza, si può trovare un riscatto.