L’esordio avviene con un dolore al petto profondo e improvviso, che non passa: nemmeno se ci mettiamo a riposo. Di fronte a questi sintomi è giusto sospettare un infarto, condizione che determina la chiusura di un ramo delle arterie coronarie e la «morte» di una zona del cuore: tanto più vasta quanto maggiore è l’occlusione. In caso di chiusura totale di una coronaria occorre intervenire il più in fretta possibile per riaprirla e limitare la zona di necrosi: si tratta della parte di cuore che potrebbe andare incontro a una distruzione definitiva. Quindi, che cosa fare di fronte a un dolore oppressivo al torace?
Angioplastica o bypass. Il dolore, innanzitutto, non va trascurato. Occorre chiamare il 118 oppure, se si è in grado, raggiungere quanto prima un pronto soccorso, dove viene effettuata una coronarografia in emergenza. Se l’esame conferma il sospetto, si comincia a ragionare sull’intervento per «riaprire» la coronaria ostruita: un’angioplastica o un bypass?
«La decisione dipende soprattutto dalla complessità della cardiopatia ischemica»: è quanto stabilito due anni fa al congresso europeo di cardiologia a seguito dell’aggiornamento delle linee guida per il trattamento dell’infarto del miocardio. «I dati ci dicono che, di fronte ai casi più delicati, dunque al cospetto di un’ostruzione maggiore, l’intervento a cuore aperto per la realizzazione di uno o più bypass garantisce risultati migliori rispetto all’angioplastica».
Tradotto: ci sono maggiori probabilità di salvare il paziente e soprattutto di farlo vivere più a lungo, riducendo il rischio di ricadute. Se la coronarografia mostra lesioni estremamente gravi o cure troppo complesse o, ancora, se i vasi sono troppo contorti per pensare di poter raggiungerli senza aprire il torace, la scelta deve necessariamente ricadere sul bypass aortocoronarico.
La «porta» per il bypass. Per ricorrere al bypass i cardiochirurghi ricreano il normale afflusso di sangue al cuore utilizzando dei pezzi di altre arterie o di vene degli arti inferiori che, «trasferiti» a livello del cuore, in prossimità dell’occlusione, permettono di scavalcare l’ostruzione e garantire il normale afflusso di sangue al muscolo cardiaco. Così facendo, si obbliga il sangue a seguire un altro percorso per raggiungere il cuore. In modo da «bypassare», per l’appunto, il transito attraverso la porzione di arteria ormai compromessa.
Ma, se finora si è quasi sempre ricorsi all’arteria mammaria per costruire questo «ponte» in grado di irrorare di sangue il cuore, il futuro potrebbe determinare un progressivo cambio d’azione. Uno studio pubblicato sul «Journal of the American Medical Association» ha infatti dimostrato che il ricorso all’arteria radiale (prelevata dal braccio del paziente) è più vantaggioso rispetto all’impiego della vena grande safena (gamba). «Il paziente non solo vive meglio nel corso degli anni successivi, ma soprattutto vive di più – afferma Giuseppe Nasso, responsabile dell’unità operativa di cardiochirurgia dell’Anthea Hospital di Bari: tra le sette firme italiane apposte in calce alla pubblicazione -. Al contrario della vena safena, che tende nel tempo a chiudersi, l’arteria radiale rimane funzionante anche dopo tanto tempo». E’ un dato che è stato confermato dai dati di follow-up raccolti nella ricerca, condotta arruolando oltre mille pazienti di cinque diversi Paesi.
Coinvolgere il paziente. Al di là della scelta del vaso da utilizzare, un altro passo in avanti nella realizzazione di un intervento di bypass aorto-coronarico è rappresentato dalla possibilità di procedere senza eseguire la sternotomia (il taglio al centro del petto), ma ricorrendo a uno o due piccoli tagli sulla parete laterale del torace (minitoracotomia). I gruppi più esperti effettuano l’intervento anche a cuore battente, senza «fermare» l’attività del muscolo cardiaco, ricorrendo alla circolazione extracorporea.
«Sottoponendosi a un bypass aorto-coronarico, un paziente risolve le problematiche derivanti dall’infarto – conclude Nasso -. Detto ciò, è fondamentale seguirlo anche nella fase postoperatoria e sincerarsi che elimini i fattori di rischio che possono aver determinato l’insorgenza della malattia: il fumo di sigaretta, l’ipertensione, una dieta a elevato contenuto di grassi saturi. Senza il coinvolgimento diretto del paziente, qualsiasi bypass nel tempo non escluderà una progressione della malattia a carico delle altre coronarie».
Fonte www.lastampa.it