La possibilità di dinamizzare i linfociti nella lotta alle cellule del cancro sta portando a risultati significativi, soprattutto nei tumori del sangue, nei linfomi, nelle leucemie e nei mielomi, i quali, insieme, contano 33 mila nuovi casi l’anno in Italia.
Le terapie più avanzate sono legate alla riprogrammazione delle cellule immunitarie del paziente stesso: si tratta delle cosiddette Car-T. Alla base c’è un processo con il quale i linfociti T vengono modificati geneticamente attraverso l’inserzione di un virus inattivato e presentano sulla loro superficie dei recettori, noti con la sigla Car (che sta per «Chimeric Antigen Receptor T-cells»), che li rendono in grado di attaccare e distruggere le cellule tumorali. Dopo questa modificazione i linfociti vengono reinfusi nel paziente, svolgendo così la propria funzione antitumorale.
«Sono terapie straordinariamente efficaci: finora i principali risultati sono stati raggiunti su pazienti affetti da leucemia linfoblastica acuta, il tumore più frequente in età pediatrica, il linfoma diffuso a grandi cellule B e anche il linfoma mantellare. Sono inoltre allo studio le terapie per la leucemia linfatica cronica e il mieloma multiplo», spiega Paolo Corradini, direttore della divisione di ematologia e trapianto dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e presidente della Società di Ematologia, tra i protagonisti della quindicesima Giornata per la lotta contro leucemie, linfomi e mieloma.
Ci sono, però, anche dei rischi. «Riguardano gli effetti collaterali severi e a volte fatali, come la neurotossicità e la sindrome da rilascio di citochine: è una reazione infiammatoria provocata da un’eccessiva risposta immunitaria, dovuta proprio ai linfociti T modificati. Le reazioni dell’organismo possono comunque essere gestite in modo efficace, quando i pazienti sono seguiti in centri con grande esperienza clinica».
Questi centri sono ancora pochi. In Italia la loro individuazione, necessaria per la raccolta e l’invio del materiale biologico e la reinfusione, viene eseguita dalle Regioni, secondo i requisiti dell’Aifa, l’Agenzia per il farmaco: questi centri vengono poi valutati dalle due aziende farmaceutiche attualmente produttrici delle Car-T (Gilead e Novartis): eseguono i sopralluoghi per verificare, a loro volta, che tutti i requisti siano rispettati. «Al momento di questi centri ce ne sono una decina, tra centri dell’adulto e due pediatrici con un terzo in via di attivazione», spiega Corradini, che annuncia anche la ripartenza degli studi, bloccati dal Covid, e la soluzione dei problemi di approvvigionamento dei farmaci: il tocilizumab, infatti, viene utilizzato per contrastare la cosiddetta «tempesta citochinica» sia da Car-T sia da Covid.
C’è poi un ulteriore problema: nell’attesa della consegna dei linfociti modificati dai centri esteri di produzione la malattia, inevitabilmente, progredisce e non è infrequente che il paziente (che è già stato sottoposto ad altre due linee terapeutiche) non ce la faccia. E, quindi, diventa necessario progettare linee di produzione italiane. Le competenze ci sono e i pochi centri sono all’avanguardia nel mondo, ma rimane da risolvere un aspetto tecnico-regolatorio. Le Car-T, infatti, sono farmaci a tutti gli effetti, anche se è evidente che la loro produzione, basata sulla modificazione delle cellule del paziente stesso, è più simile a un processo. Eppure l’ingegnerizzazione, al momento, viene realizzata solo dalle aziende produttrici delle due Car-T in commercio, escludendo i laboratori universitari, noti come «cell factory».
Ricorrere a «officine» nostrane, per lomeno nella produzione di nuove Car-T, non ancora registrate e in via di sperimentazione, è un obiettivo non soltanto italiano, ma di molti altri Paesi. In gioco c’è anche l’aspetto economico: ogni trattamento costa 320 mila euro a paziente e, quindi, si cercano nuove strade per abbattere i prezzi. A maggior ragione – sottolinea Corradini – è fondamentale che i controlli siano i più efficaci possibile, garantendo quella che si definisce «l’appropriatezza del trattamento». Per la via «made in Italy» sono quindi stati stanziati 60 milioni di euro.
In Germania, dove il prezzo del trattamento è simile al nostro, di fronte all’estensione del suo uso anche ad altri tipi di tumori, «c’è preoccupazione per il fatto che i sistemi sanitari non saranno in grado di sostenere i costi legati all’aumento dei pazienti», ha spiegato Michael Schlander, docente di economia sanitaria dell’Università di Heidelberg e autore di un lavoro con l’immunologo Stefan Eichmüller del German Cancer Research Center e apparso sulla rivista «International Journal of Cancer»: è un’analisi dei costi a carico di un’istituzione accademica che volesse produrre e non solo erogare le terapie Car-T. Il risparmio sarebbe comunque notevole, anche senza considerare i vantaggi della decentralizzazione dei centri produttivi in termini di disponibilità della cura. In un contesto no-profit (in questo caso universitario) il costo scenderebbe drasticamente: a seconda degli scenari, a 60 mila euro o, addirittura, a 33 mila, vale a dire fino a un decimo dei costi attuali, con la produzione unicamente in mano alle aziende farmaceutiche.—