“Qui sono utile, ma lì potrei dare una grande mano”. Loredana Faraldi, anestesista e rianimatrice dell’ospedale Niguarda di Milano, è il medico della base italo-francese Concordia ed è arrivata lì con l’entusiasmo di chi è abituato a lavorare in prima linea e nell’emergenza, sapendo quanto sia fondamentale il ruolo del medico in una base dispersa in una distesa di ghiaccio dove la temperatura può scendere fino a meno 90 gradi. “Ho desiderato tantissimo essere qui, ma adesso – dice all’ANSA – ricevo tutti i giorni messaggi dai miei colleghi e vedo il loro sacrificio, difficile da comprendere per chi non conosca da vicino quella realtà”.
Oltre a lei, sono 12 le persone che fanno parte dell’equipaggio della base di ricerca italo-francese gestita dal Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (Pnra), frutto della collaborazione di Enea e Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), e dall’Istituto polare francese ‘Paul Émile Victor’ (Ipev). Quattro gli italiani: oltre a Faraldi, il responsabile della base Alberto Salvati, il meccanico Andrea Ceinini e l’informatico Luca Ianniello. Per il resto l’equipaggio è composto da sette fra ricercatori e tecnici francesi e da una ricercatrice olandese dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa).
“Per le condizioni climatiche e geografiche qui è assolutamente necessaria la presenza di un medico che si prenda cura dell’equipaggio, considerando che le evacuazioni mediche sono molto difficili anche per questioni banali come la frattura di un dito: in estate non è facile, durante l’inverno è impossibile – prosegue – perché gli aerei non possono volare in questa zona, qualsiasi cosa accada dal punto di vista medico”.
Quando aveva fatto la domanda per lavorare a Concordia per il periodo di un anno sapeva di dover affrontare una sfida notevole: “l’ho desiderato tantissimo. E’ una sfida perché qui il medico è completamente solo e deve fare un po’ di tutto. Qui ho fatto l’ortopedico, il dentista, il medico di base e lo psicologo, lavorando a 360 gradi”.
Adesso la sfida è continuare a fare il suo lavoro, indispensabile in un ambiente così ostile, sapendo quanto stanno affrontando i suoi colleghi in Italia. “Leggo i messaggi del mio gruppo e le e-mail dell’ospedale, dove sono state aperte velocissimamente nuove unità di rianimazione. I turni di lavoro erano difficili anche prima, ma adesso lo sono ancora di più per il numero dei pazienti”. Due colleghe si sono ammalate e il papà di una di loro è ricoverato in rianimazione.
“Tutto questo mi fa sentire in difetto verso di loro. So che qui sono utile, ma so che se fossi a Milano potrei dare una grande mano”, aggiunge. Tutti i membri dell’equipaggio vivono un sentimento contrastante: “da un lato siamo felici di essere qui perché è un’esperienza unica, ma vorremmo essere vicino ai nostri cari per aiutarli”.
“E’ una situazione che non riusciamo a percepire davvero bene: io stessa faccio tante domande ai miei colleghi, ma è difficile avere informazioni anche perché la connessione internet non è veloce come a casa”. Nelle e-mail che arrivano dai colleghi del suo gruppo del Niguarda, le capita di leggere “sei andata nell’unico posto in cui non c’è il virus”; legge poi che molti di coloro che lavorano con i pazienti con il virus non si sentono sicuri nel tornare a casa e hanno possibilità di avere alloggi anche per dormire. Mentre qui, conclude, “possiamo ancora abbracciarci”.