Avvolti finora nel mistero più fitto, i buchi neri sono stati messi a nudo da uno strumento che, dalla Stazione Spaziale Internazionale (Iss), è riuscito a ricostruirne il modo in cui ingoiano la materia che li circonda, come emettono raggi X e come questi processi siano controllati dalla regione immediatamente esterna al buco nero. La scoperta, che ha conquistato la copertina della rivista Nature ed è stata presntata nel convegno della Società astronomica americana a Seattle, è stata coordinata da Erin Kara, dell’Università del Maryland e del centro Goddard della Nasa.
Quando viene risucchiata in un buco nero, la materia emette lampi di raggi X e questo fenomeno, chiamato evento transiente, è di fondamentale importanza per studiare l’evoluzione di questi oggetti cosmici. Finora non c’erano dati sufficienti per stabilire se i lampi venissero generati dal disco di materia che circonda il buco nero nel momento in cui risucchiata, o se dalla regione compatta che circonda il disco di detriti (chiamata corona). A decidere per questa seconda ipotesi sono stati i dati dello strumento Nicer (Neutron star Interior Composition Explorer), dal giugno 1997 installato all’esterno della Stazione Spaziale.
I dati riguardano un buco nero di dimensioni modeste, con una massa dieci volte superiore a quella del Sole, chiamato Maxi J1820+070. E’ emerso che nel giro di un mese la corona si è ristretta progressivamente, passando da cento a dieci chilometri, mentre il disco di detriti è rimasto invariato. Finora erano stati osservato soltanto buchi neri con masse di milioni di miliardi superiori a quella del Sole, ma in questi giganti cosmici qualsiasi cambiamento avviene in modo molto lento. Il vantaggio di aver osservato Maxi J1820+070, secondo Kara, è nel fatto che “ha molto meno massa e si evolve più velocemente, in modo che possiamo osservare i suoi cambiamenti su scale di tempi a dimensione umana”.