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L’uomo è fatto per lo spazio, lo dicono i dati del test sui gemelli

Vivere nello spazio sembra essere meno pesante del previsto per l’uomo: gli effetti di una lunga permanenza in orbita in assenza di gravità sono infatti paragonabili a quelli provocati dallo stress. E’ quanto emerge dall’esperimento condotto dalla Nasa, sugli astronati gemelli Mark e Scott Kelly, i cui risultati sono pubblicati sulla rivista Science.

L’organismo semba sapersi adattare alla vita nello spazio più rapidamente e meglio di quanto si pensasse, dimostrandosi capaci di resistere alla vita in orbita, a dispetto di microgravità, radiazioni, alterazioni dell’orologio biologico, alti livelli di anidride carbonica e isolamento. L’esperimento, che ha coinvolto 10 gruppi di ricerca, ha visto impegnati Scott Kelly in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale per 342 giorni, e il suo gemello Mark a Terra. I campioni da analizzare sono stati raccolti prima, durante e dopo la missione spaziale, lungo un periodo di 27 mesi.

Il Dna di Scott non è risultato alterato, anche se i ricercatori hanno notato cambiamenti nell’espressione dei geni, ossia la risposta del genoma all’ambiente. Alterazioni che secondo la Nasa rientrano comunque nella media della risposta umana allo stress. Nel gemello in orbita sono stati inoltre osservati cambiamenti nella forma del bulbo oculare e il calo di alcune abilità cognitive misurate con una serie di test. “Una questione importante per la salute degli astronauti è la sindrome neuro-oculare associata allo spazio (Sans), che porta ad un indebolimento della vista e può essere il frutto dei tanti scossoni al sistema vascolare prodotti dal cambiamento di microgravità, ambientale e una possibile predisposizione genetica”, commenta Brinda Rana, una dei principali autori dello studio.

Tuttavia non è ancora chiaro se i cambiamenti osservati in Scott Kelly dopo il suo rientro sulla Terra siano dovuti al lungo periodo trascorso in orbita, nè è possibile prevederne la durata. Un altro effetto osservato durante la permanenza di Kelly in orbita, è stato lo stress da privazione di ossigeno, che ha portato a un aumento dell’infiammazione e variazioni dei nutrienti che influiscono sull’espressione genetica. Lo studio è stato utile anche per stabilire dei protocolli nella raccolta e trasporto di campioni biologici per i futuri esperimenti sugli astronauti, visto che il volume del sangue si riduce nello spazio, e gli astronauti sono cronicamente disidratati.

“Questi dati suggeriscono che il corpo umano può affrontare e sopportare voli spaziali di lunga durata – conclude Rana – Il corpo umano riesce ad adattarsi ai numerosi cambiamenti indotti dall’ambiente spaziale. Tutto ciò servirà come roadmap per le ricerche future, capire meglio i potenziali rischi per la salute nelle missioni di lunga durata, e sviluppare contromisure personalizzate”.

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