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Negli ecosistemi alterati il motore delle epidemie

Gli animali che veicolano malattie infettive pericolose per l’uomo, come Covid-19 o Ebola, sono più numerosi negli ecosistemi alterati dalle attività umane rispetto agli ecosistemi incontaminati: il fenomeno riguarda in particolar modo alcuni pipistrelli, roditori e uccelli passeriformi. Lo dimostrano i dati raccolti in sei continenti dagli esperti del Centro per la ricerca sull’ambiente e la biodiversità dell’University College di Londra. I risultati, pubblicati sulla rivista Nature, mostrano la necessità di una sorveglianza più attenta in quelle aree del mondo in cui gli habitat naturali sono minacciati dall’avanzamento di città e coltivazioni.

“Il modo in cui gli umani cambiano il paesaggio, ad esempio trasformando una foresta in un terreno agricolo, ha un impatto significativo su molte specie animali selvatiche: alcune vanno incontro al declino, mentre altre persistono o proliferano”, spiega il coordinatore dello studio, Rory Gibb. Analizzando i dati relativi a quasi 7.000 specie di tutto il mondo, di cui 376 note come vettori di malattie pericolose per l’uomo, è emersa la prova che conferma quanto si sospettava già da tempo. “Gli animali che restano negli ambienti più antropizzati – afferma Gibb – sono quelli che hanno più probabilità di portare malattie infettive in grado di far ammalare le persone”.

“Considerando che nei prossimi decenni terreni agricoli e aree urbane continueranno a espandersi – commenta l’ecologa Kate Jones – dovremmo rafforzare il monitoraggio delle malattie e i rifornimenti sanitari in quelle aree che stanno andando incontro a una pesante alterazione del territorio, dato che hanno una crescente probabilità di ospitare animali portatori di patogeni pericolosi”.

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