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Produci, consuma, acquista. L’obsolescenza programmata è la strategia dominante

Prima o poi arriva il momento di buttare via il phon, il televisore o il telefonino. E’ colpa dell'”obsolescenza”, l’invecchiamento che porta a fine corsa anche i dispositivi elettronici. Una strategia atta a farci acquistare sempre più

Prima o poi arriva il momento di buttare via il phon, il televisore o il telefonino. E’ colpa dell'”obsolescenza”, l’invecchiamento che porta a fine corsa anche i dispositivi elettronici. Ma se il “poi” è la promessa (mai mantenuta) che durino per sempre, è quel “prima” che preoccupa. Nel secondo caso, si parla di “obsolescenza programmata”, quando si intende il termine di durata di un prodotto imposto dall’azienda che lo produce.

In passato accadde per la prima volta con la lampadina a incandescenza: era il 1923 e le principali aziende produttrici (tra cui Osram, Philips, General Electric) si misero d’accordo per far durare la luce non più di mille ore, riducendo le 2500 cui erano abituati i consumatori. Quello standard internazionale stabilito dal “cartello Phoebus” segnò la storia della tecnica voluta dalle aziende per ridurre deliberatamente la durata di funzionamento di un prodotto, garantendosi il ricambio con oggetti di ultima generazione. Un effetto che il consumismo ha visto crescere in molti settori, oltre all’elettronica, dalla moda alle automobili.

Il progresso tecnologico ci ha messo del suo. Già nel 1933 l’obsolescenza programmata fu persino oggetto di una proposta di legge da parte dell’immobiliarista americano Bernard London come ricetta per uscire dal pantano della Depressione e incentivare i consumi. In quegli stessi anni, il nylon si stava sostituendo alla seta per la produzione delle calze da donna, proprio grazie alla resistenza del materiale, che la stessa azienda chimica DuPont si trovò quindi a voler frenare indebolendo la fibra per assicurarsi le vendite: i collant non dovevano essere indistruttibili.

Il consumismo detta le regole, ma la psicologia gioca un ruolo decisivo. E’ del 2017 il rapporto “Cassetti pieni di vecchi telefonini: consumatori e oggetti dalla obsolescenza percepita”, pubblicato dall’Agenzia governativa francese per l’ambiente e per il controllo dell’energia (Ademe), secondo i quale l’88% dei cellulari che vengono rimpiazzati funzionano ancora. Arriviamo così all'”obsolescenza percepita“, ossia quel meccanismo per cui ci convinciamo che sia ora di sostituire un prodotto usato quotidianamente, spesso decidendo di conservarlo: la metà dei telefonini rimpiazzati finisce così nel cassetto, appunto, per essere conservata perché, oltre a essere un ricordo, “potrebbe sempre servire” o perché “potremmo rivenderlo prima o poi”. In questo caso, dunque, l’obsolescenza è “voluta” e non subìta. Ma la spinta a frenare i desideri di consumo oggi arrivano da una nuova consapevolezza: l’impatto ambientale. Negli ultimi anni la preoccupazione degli ecologisti ha aperto la strada in due direzioni: da una parte il controllo del portafogli da parte dei consumatori e, dall’altra, la vigilanza delle strategie di vendita delle multinazionali da parte delle istituzioni.

Contro la pratica dell’obsolescenza programmata recentemente si sono pronunciate sia le istituzioni europee, sia i governi nazionali. La Commissione europea, ha emanato, per esempio, la direttiva sull’ecodesign – recepita in Italia nel 2016 – che chiede ai produttori di implementare le strategie di eco progettazione con azioni che favoriscono l’aumento della vita media dei prodotti e ne facilitino le operazioni di riparazione, permettendo anche l’aggiornamento tecnico.

Proprio grazie alla legge del 2016, Apple è finita quest’anno nel mirino della giustizia francese per “truffa” e “obsolescenza programmata”. L’accusa? Avere ridotto deliberatamente la durata dei suoi iPhone. L’azienda di Cupertino ha riconosciuto di rallentare temporaneamente i vecchi modelli di smartphone, in relazione al deterioramento della batteria, anche se ha negato di aver fatto qualcosa per accorciare la vita dei suoi dispositivi. La questione era stata sollevata dopo il richiamo di una serie di iPhone 6 e 6 Plus e il seguente aggiornamento iOS 10.2.1 che aveva risolto il problema dello spegnimento improvviso di quei modelli, salvo comprometterne le prestazioni. Da qui la decisione di Apple di fornire batterie scontate per i possessori dei modelli in questione, con le istruzioni per ottimizzarne l’uso. Da allora però le class actions si sono moltiplicate.

A muoversi contro la pratica degli aggiornamenti “selvaggi” di sistema oggi ci ha pensato l’Antitrust italiana con una multa di 10 milioni di euro a Apple  accusate di avere imposto “aggiornamenti software per rendere vecchi i loro smartphone”. E’ la prima volta che l’Autorità inchioda le aziende per obsolescenza programmata.

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