Scoperto il gene architetto del volto umano: è il risultato di un processo analogo a quello dell’addomesticazione degli animali e il risultato cambia letteralmente le prospettive dell’evoluzione. Partita dallo studio di due malattie genetiche, la ricerca è pubblicata sulla rivista Science Advances ed è nata dalla collaborazione fra Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) e Università Statale di Milano. Hanno partecipato anche le Università di Barcellona, Cantabria, Colonia e Heildelberg, e l’Irccs Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo. “Il processo di self-domestication coinciderebbe con l’emergere dell’essere umano che oggi anatomicamente conosciamo”, ha osservato il coordinatore della ricerca Giuseppe Testa, direttore del Laboratorio di Epigenetica delle Cellule Staminali dello Ieo, docente di Biologia molecolare all’Università di Milano e direttore del centro di Neurogenomica dello Human Technopole.
La prova sperimentale è arrivata studiando le cellule staminali di due malattie genetiche, entrambi varianti della sindrome di Williams-Beuren, nelle quali sia il viso sia le caratteristiche cognitive e comportamentali presentano aspetti tipici del processo di addomesticazione, come la faccia più piccola e ridotte reazioni aggressive. “Noi presentiamo infatti caratteristiche del volto e del comportamento che ricordano quelle che distinguono appunto le specie addomesticate da quelle selvagge”, ha proseguito Testa, che ha condotto la ricerca con Alessandro Vitriolo e Matteo Zanella, del Laboratorio di Epigenetica delle Cellule Staminali dello Ieo e del dipartimento di Ematoncologia dell’Università di Milano.
Il gene architetto si chiama BAZ1B e il suo ruolo consiste nel regolare, come un direttore d’orchestra, l’attività di decine e decine di geni responsabili delle fattezze del volto o di atteggiamenti di socialità. “Ci siamo arrivati – ha proseguito testa – confrontando i nostri dati sperimentali con le analisi paleogenetiche degli uomini arcaici”. Le analisi hanno fatto per la prima volta “parlare il Dna dei nostri antenati arcaici, dando senso alle varianti genetiche che li distinguono da noi e che erano restate silenti, cioè funzionalmente indefinite, fino a che, appunto, non siamo riusciti ad associarle al controllo esercitato da questo gene così speciale”. E’ la prima volta, ha rilevato il ricercatore, che le malattie genetiche “sono state in grado di catturare l’eco della nostra storia lontana per parlarci dell’evoluzione della condizione umana”.
Il risultato, ha concluso testa, “è destinato ad avere un forte impatto sulla nostra concezione dell’uomo e della sua evoluzione, non solo perché fornisce la dimostrazione empirica a un’idea così fondativa della nostra condizione moderna, ma anche perché definisce un vero e proprio nuovo campo di studio, in cui specifiche malattie genetiche, grazie alla possibilità di comprenderle in vitro attraverso degli avatar cellulari dei pazienti, illuminano la storia che ci ha condotto fin qui e che tutti ci accomuna”.