Per la prima volta è stato dimostrato il meccanismo molecolare con cui il talidomide provoca le terribili malformazioni fetali che hanno portato al suo ritiro dal commercio 60 anni fa e che sono tutt’oggi visibili in Brasile, dove il farmaco viene ancora usato per la cura della lebbra. La sua azione non modificherebbe il Dna dell’embrione, bensì degraderebbe la proteina p63, uno deli ‘architetti’ molecolari che guidano lo sviluppo embrionale. Lo ha scoperto Luisa Guerrini, professore associato di biologia molecolare dell’Università Statale di Milano, che dopo 18 anni di ricerche senza fondi è arrivata a questo risultato in collaborazione con l’Istituto di tecnologia di Tokyo e la Tokyo Medical University. Pubblicato sulla rivista Nature Chemical Biology, lo studio potrà facilitare il riconoscimento degli indennizzi alle vittime del talidomide, ma non solo: potrà perfino aprire a nuove terapie anticancro.
“Stavo studiando da tempo la proteina p63, le cui mutazioni causano cinque rare sindromi umane caratterizzate da malformazioni agli arti, al palato, al cuore e alla pelle, quando all’improvviso ho realizzato che questi sintomi erano del tutto sovrapponibili a quelli dei bambini talidomidici”, racconta Guerrini all’ANSA. “L’idea iniziale è stata quindi che il talidomide potesse aver agito durante lo sviluppo embrionale sulla proteina p63, che sapevamo essere cruciale per la formazione di arti, palato, pelle e cuore”.
Il talidomide blocca lo sviluppo delle pinne e della vescicola otica nello zebrafish (fonte: T. Asatsuma-Okumura et al, Nat Chem Biol 2019)
Usando il pesce zebra come modello, lo studio ha dimostrato che il talidomide provoca la degradazione di p63 attraverso la molecola cerebron (Crbn): il farmaco aumenta l’interazione di Crbn con p63 provocandone la degradazione e, di conseguenza, danni alle pinne (corrispondenti agli arti) e alle vescicole otiche (corrispondenti alle orecchie). Come controprova, si è visto che aumentando i livelli di p63 negli embrioni di zebrafish trattati con talidomide si recupera il normale sviluppo delle pinne e della vescicola otica.
“Questo studio sarà sicuramente utile nel dirimere le richieste di indennizzo delle vittime del talidomide perché dimostra che il farmaco non agisce sul Dna, ma ha solo un effetto transitorio a livello della proteina p63”, spiega Guerrini, che fa parte del comitato scientifico dell’associazione Vittime Italiane Talidomide (Vita). “Se il sequenziamento del gene p63 rivelasse che è normale e non mutato, significherebbe che le malformazioni sono state causate a valle del Dna dall’azione del farmaco”.
La cosa più sorprendente è che la scoperta del meccanismo molecolare del talidomide potrebbe aiutare anche la lotta al cancro. “Sappiamo che una particolare forma della proteina p63 è espressa in eccesso in alcuni tumori, per esempio nel carcinoma a cellule squamose testa-collo e nell’ovaio: in futuro si potranno quindi sviluppare nuovi farmaci mirati su p63, privi dell’effetto teratogeno del talidomide e con solo l’attività antitumorale”, conclude la biologa.