In Italia, secondo dati Istat, un ragazzo su due nel 2014 è stato vittima di bullismo e negli anni la statistica non è migliorata. A conferma della persistenza di un fenomeno che forse è ancora sottovalutato
Il recente caso di Jamel Myles, il bambino americano suicidatosi, a soli 9 anni, perché vittima di bullismo, ha messo drammaticamente in evidenza le potenzialità distruttive di un fenomeno spesso sottovalutato e a cui ancora la società non è in grado di prendere le misure. Se negli Stati Uniti quello di Jamel, bullizzato dopo aver confessato ai compagni di classe di essere gay, è un caso estremo, prodotto di un paese in cui il tasso di mortalità dei ragazzi (10-14 anni) per suicidio è pari a quello per incidenti stradali, in Italia la piaga del bullismo non deve lasciare indifferenti, visto che, secondo dati Istat, almeno un giovane su due tra gli 11 e i 18 anni ne è stato vittima nel 2014.
Numeri che non sono migliorati negli anni, come dimostra l’indagine sul 2017 dell’Osservatorio nazionale adolescenza, che su un campione di ottomila ragazzi ha evidenziato come, nella fascia tra i 14 e i 18 anni, il 28 per cento sia stato vittima di bullismo tradizionale, percentuale che sale al 30 nella fascia tra gli 11 e i 13 anni.
Un fenomeno, quindi, tutt’altro che sotto controllo, anzi sovente sottostimato dagli adulti, che considerano violenze, prevaricazioni e offese un viatico inevitabile dell’esperienza scolastica, quasi propedeutico alla crescita personale. Anche per questo, forse, gli adolescenti non parlano con i genitori e con gli insegnanti del dolore che provano e di quello che subiscono e, quando trovano il coraggio di farlo, evitano di raccontare il loro vissuto più profondo, cercando di alleggerire la situazione per non farli allarmare o per paura delle possibili conseguenze. Nella già citata indagine del 2017 è emerso, in tal senso, che il 74 per cento delle vittime, dai 14 ai 19 anni, non ha mai parlato di quello che subisce a scuola con i genitori e che l’87 per cento, circa nove vittime su dieci, non lo ha mai raccontato agli insegnanti, esprimendo un’importante sfiducia nei confronti dell’istituzione scolastica come strumento efficace di tutela ed intervento.
Anche la madre di Jamel, Leila Pierce, non sapeva dei problemi del figlio: “Aveva detto alla sorella che i ragazzi a scuola gli intimavano di uccidersi – ha dichiarato la donna alla stampa – ma non è venuto da me a dirmelo. Sono sconvolta al solo pensiero che abbia visto l’uccidersi come la sua unica opzione”.
L’unica soluzione è il dialogo, parlare con i propri figli: essere bullizzati significa subire un trattamento che ammala l’anima, ma ciò non significa che non esistano rimedi per contrastarlo. E il rimedio è la legge, che equipara il comportamento degli studenti che vessano in modo continuo un compagno di classe, sino a creargli forti traumi psicologici, al reato di stalking: lo ha stabilito, recentemente, la quinta sezione penale della Cassazione, con la sentenza 26595/18, attraverso la quale i giudici hanno inquadrato il caso di bullismo continuato ai danni di un allievo, accaduto in una scuola pubblica italiana, come una colpa da includere tra gli “atti persecutori”, con le aggravanti penali che ne conseguono. Un precedente che oggi può servire a ragazzi, genitori e insegnanti, ognuno messo di fronte alle proprie responsabilità.