Pubblicato il: 18/02/2019 13:11
(di Andreana d’Aquino) – In una sua canzone su quattro Fabrizio De André ha raccontato storie usando anche parolacce. Forse perché, come lui stesso cantava, è “dal letame che nascono i fiori”. Ciò nonostante, le volgarità inserite da De André nei suoi brani -studiati ormai in ogni aspetto- non sono mai state oggetto di analisi nel dettaglio. Ora è lo psicolinguista Vito Tartamella, uno dei pochi esperti al mondo di parolacce, ad avere realizzato un inedito studio sulle parolacce di Faber anticipandone all’Adnkronos i risultati, proprio nel giorno dell’anniversario di nascita del musicista, nato a Genova il 18 febbraio 1940.
Le parolacce scritte nelle sue canzoni da De André “non sono ancora state oggetto di studio come se fossero un incidente, o un aspetto trascurabile rispetto al lessico, indubbiamente raffinato, dei suoi testi” e “per questi motivi ho deciso di fare la prima analisi lessicale sul turpiloquio di De Andrè” spiega Tartamella che ha studiato “tutte le 125 canzoni scritte nella sua carriera” da Fabrizio De André, arrivando ad un “risultato che è stato sorprendente”. “Ho scoperto che De Andrè ha usato più di 30 diversi termini scurrili, che sono presenti in una canzone su quattro” riferisce Tartamella, autore del saggio ‘Parolacce’ che conta molte edizioni ed ormai diventato un e-book. Fabrizio “è stato uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, e le sue canzoni sono state studiate in ogni aspetto tranne uno: le parolacce”. Eppure, osserva ancora, “non sono state marginali nella sua opera”.
Anzi, “sono state così rilevanti da aver contribuito al suo successo. Come ricorda Ivano Fossati, ‘Al liceo ascoltavamo i dischi di Fabrizio De Andrè. Quello che ci piaceva delle sue canzoni è che c’erano le parolacce'” continua lo psicolinguista che pubblicherà a breve lo studio sul suo sito www.parolacce.org. Ma “la scelta del cantautore genovese di usare il linguaggio basso non è stata un caso. Perché Faber metteva una cura maniacale nella scelta di ogni singolo termine” è l’analisi dello psicolinguista che sottolinea come il musicista e poeta italiano sia “uno dei pochi artisti riuscito a fare poesia alta usando linguaggio basso”.
D’altra parte, osserva Vito Tartamella nel suo studio, “per una persona che come De André amava senza snobismo la cultura popolare, la schiettezza e il realismo, le parolacce hanno rappresentato uno strumento molto efficace, persino in testi raffinati e complessi come i suoi”. Le parolacce secondo lo psicolinguista “arricchiscono in modo straordinario la tavolozza espressiva” di De André, “tanto che molte di queste strofe ‘a tinte forti’ sono passate alla storia. E rivelano in modo efficace la sua personalità e il suo mondo artistico”.
“Ho pensato, quindi, che questo studio lessicale fosse un buon modo per ricordare De Andrè, un musicista che ho amato immensamente” e di cui quest’anno ricorre il “ventesimo anniversario della scomparsa”. Secondo Tartamella, il dato “più interessante di tutti” messo in luce dalla ricerca “è il tipo di parolacce” usate da Faber: “la maggior parte (55%) sono insulti, seguiti da termini sessuali (34%). Hanno invece un ruolo marginale i modi di dire (6%), i termini escrementizi (3%) e le maledizioni (2%)”.
E questo, argomenta l’esperto, “non stupisce: nelle sue canzoni, De Andrè prende posizione apertamente e gli insulti non sono altro che giudizi sommari di condanna verso una persona nella sua totalità”. Gli insulti preferti da De Andrè, fra i quali alcuni in genovese, erano “quelli che disprezzano la mancanza di intelligenza: idiota, scemo, cialtrone, cretino, nèsciu”. Ma “ha altrettanto peso il disprezzo per chi si comporta in modo scorretto -cialtrone, carogna, galûsciu, infame- e sono tutti insulti che squalificano personaggi tronfi, disonesti, ignoranti”. Poi “c’è tutta la serie di insulti sulla morale sessuale, sulle prostitute ed i corrispettivi maschili che designano i sessuomani (porco) e gli sfruttatori delle prostitute (pappone, xàtta)” indica infine Tartamella che “al ribelle che parlava sporco” dedica una ricerca che ci spinge ad osservare il mito di Faber anche da questo nuovo orizzonte.
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