Breve riassunto delle puntate precedenti: su Junior Cally, rapper emergente e quindi non ancora peso massimo di questa musica in Italia, è stato detto tutto il male possibile in vista della sua partecipazione ormai imminente a Sanremo. Ma è stato detto per il brano sbagliato. Perché Strega, il suo rap con quel passaggio di versi sulla tipa che si chiama Gioia con cui Cally dice di aver fatto sesso e però, siccome lei parlava troppo, di averla ammazzata usando poi la sua borsa per rivestire la maschera con cui si presenta in pubblico, non è No grazie, quello con cui sarà in gara al Festival. Che contiene attacchi sul fronte politico. Di questo brano, l’unico che dovrebbe interessare chi lo giudicherà da casa, sui giornali, in tv o in giuria durante Sanremo, si conosce per ora solo questo stralcio di testo: Spero si capisca che odio il razzista/che pensa al Paese ma è meglio il mojito/e pure il liberista di centro sinistra/che perde partite e rifonda il partito. Gomitate anche abbastanza spuntate a Salvini e a Renzi, e poi un elogio del provare a farcela da soli in un Paese, l’Italia, in cui troppa gente spende i soldi degli altri e mantenersi alla larga dai soliti schieramenti un’impresa. Ma travolto dalle reazioni inorridite per Strega, Cally ha poi dichiarato: “Moltissime persone, forse che si avvicinano al rap per la prima volta, si sono sentite ferite. Me ne dispiaccio profondamente, non era e non sarà mai mia intenzione ferire qualcuno”. Qualcosa di semplicemente ridicolo.
Un rapper pentito non è un rapper
Ancora nella sua nota, diffusa variamente dalle agenzie stampa, Junior Cally (vero nome Antonio Signore, romano di 29 anni) prosegue il suo mea culpa: “E’ da qualche giorno che rifletto su quanto sta accadendo intorno a me. Quello che accade è che moltissime persone si sono sentite offese da alcuni testi da me composti in passato e dalle immagini che li hanno accompagnati. Ho provato a spiegare che era un altro periodo della mia vita e che il rap ha un linguaggio descrittivo nel bene e nel male e rappresenta la cruda realtà come fosse un film. Purtroppo moltissime persone, forse che si avvicinano al rap per la prima volta, si sono sentite ferite. Me ne dispiaccio profondamente, non era e non sarà mai mia intenzione ferire qualcuno. La cosa più importante che voglio ribadire è che la musica mi ha dato una speranza e mi ha salvato la vita in un momento in cui avevo una marea di problemi ed è solo la musica che voglio portare sul palco di Sanremo. Trovo insopportabile la sola idea della violenza contro le donne, in ogni sua forma”. Insomma, l’oltraggioso ribelle in cerca di visibilità sanremese (un posto che c’entra con l’hip hop come Rocco Siffredi con un concistoro) si rifugia nel ritratto di bravo ragazzo con passato sofferente, salvato dalle note e che in fondo canta o rappa cose che non pensa veramente. Ma un rapper così non è un rapper. Perché l’hip hop è brutto, sporco, cattivo, maschilista, tamarro, misantropo, volgare e nasce fondamentalmente per esprimere una cosa: l’insulto. E chi lo fa lo sa dal principio.
O si capisce cosa è l’hip hop o è meglio non ammetterlo a Sanremo
Pretendere che un brano rap suoni come una canzoncina d’amore è qualcosa di irrealistico. Se si ritiene che quella musica abbia un impatto dannoso sui ragazzi, sui nostri figli (di cui però spesso ignoriamo i flussi di immagini e parole che abitano quotidianamente i loro smartphone e quindi la loro mente) allora si abbia il coraggio della censura preventiva. Ma sempre: Achille Lauro non si è pentito ed è rimasto furbescamente ambiguo rispetto alla sua Rolls Royce, e Sfera Ebbasta, a dare un’occhiata ai suoi testi, dovrebbe essere bandito dalla giuria di X Factor. Censura che che non scattò, come già ricordato, con Eminem strapagato ospite che quanto a psicosi e fame di violemza vendicativa sulle donne (a cominciare da sua moglie) ha costruito una carriera già prima di andare sul palco di Sanremo, e nemmeno sul Mike Tyson che l’allora intervistatore-conduttore Bonolis non si sentì imbarazzato nel definire “una bella persona”. Ma era un Tyson a fine corsa, che faceva il cucciolone un po’ sfiancato dai suoi stessi errori, e la logica catto-moralista italiana vuole il pentito. Mai il ribelle, mai il poco allineato, tendenzialmente il bravo ragazzo che se ha sbandato lo ammette prima di salire sul palco dell’Ariston e usa il suo pezzo come atto di pentimento di fronte all’Auditel.
Pentiti figliolo, e potrai cantare all’Ariston
Junior Cally è stato lestissimo a capirlo e a vestirsi di sacco con la cenere sul capo. Torna in scena lo stereotipo della canzoncina d’intrattenimento, tendenzialmente sui sentimenti, che piace tanto alla maggioranza del pubblico sanremese. E noi a quasi 50 anni dalla nascita dell’hip hop (a metà anni Settanta con la poesia militante, sociale e dura in ambito afroamericano prima di trasformarsi in baracconata pop milionaria) ancora fatichiamo a capire quella musica, aspettiamo il parere di J-Ax o quello di Red Ronnie per sapere cosa pensarne. E’ il ritornello dell’ipocrisia, quello che l’Italia preferisce.