I’m the operator with my pocket calculator. Fra i suoni di mille bip e altri segnali elettronici, lui e i suoi compagni avevano già capito che il nostro sarebbe stato sempre più un Computerwelt. Un mondo di computer. Dove perfino i ritmi più ballabili sarebbero stati scanditi da algoritmi e sequenze matematiche diventate pulsazioni. Con la scomparsa di Florian Schneider (lo scorso 30 aprile ma resa pubblica solo nelle scorse ore) se ne va un pezzo decisivo dello stile sonoro che ha unito tre generazioni anticipando tutta la musica elettronica venuta dopo. Il tutto condensabile in una sola parola: Kraftwerk. La “centrale elettrica” tedesca che in pochi anni ha spazzato via pose rock and roll, uso di strumenti tipici della band (basso, batteria, chitarre) per imporre il suono proveniente dalle macchine e un’estetica fredda, composta, elegante, che allora sembrò atterrare da un pianeta alieno. E di fatto lo era, provenienza Dusseldorf. La Germania dei palazzoni grigi, della potenza industriale della Ruhr, della tecnologia che aveva già cominciato a prendere il controllo delle nostre vite.
Ballare abbracciati ad una enorme calcolatrice
Nel 1970 il primo lavoro dei Kraftwerk fu uno sfregio in faccia a Led Zeppelin e Pink Floyd (all’apice della fama) e dei Beatles melodici, legati al blues e al vecchio rock and roll che erano ad un passo dallo scioglimento. Ciao ciao dinosauri rock, goodbye motivetti melodici che riempivano juke box e radio. Schneider e il suo compare Ralf Hutter ridefinirono proprio in chiave “popular” ciò che veniva dagli esperimenti delle accademie in cui le nuove strategie di composizione ridefinivano le possibilità della musica. E dunque Stockhausen ma anche, qualche anno dopo, l’Ircam in cui Stravinsky e poi Boulez e Berio e Risset diedero piena dignità alla musica elettronica. I Kraftwer erano già in pista, e su quella pista portarono la prima generazione di kids stufi dell’hard rock, poi altrettanto stufi del nichilismo punk e molto più incuriositi dalla musica della “riapertura”, la new wave. Quattro gentiluomini teutonici con look mutato dal design industriale come da un certo cinema espressionista tedesco, stavano in piedi dietro ai loro computer e sintetizzatori. A disegnare scenari nuovi. Un nuovo immaginario: We Are the Robots.
Trans-Europe Express
Era partito un treno dal fascino glaciale, in cui arpeggiatori e forme sinusoidali partorite dalle macchine invitavano i ragazzi a ballare abbracciati ad una metaforica, enorme calcolatrice tascabile. Die Mensch Machine, Trans-Europe Express, Computerwelt sfilavano uno dietro l’altro, con Schneider a fare da macchinista capo mentre nell’equipaggio erano entrati Wolfgang Flur, Klaus Roeder e più tardi Karl Bartos. Pezzi di stile sonoro e pezzi di design fin dalla copertina, questo erano gli album dei Kraftwerk. Questo rimangono.
Florian Schneider
E mentre il capotreno se ne va, portato via da un tumore veloce a 73 anni, non si contano i loro allievi ed epigoni: dai Neu ai molto più recenti Air, Aphex Twin, Depeche Mode, Autechre, Kalkenbrenner. Oggi le chitarre hanno problemi di sopravvivenza sul palco, non i sintetizzatori, i sequencer, la musica programmata. Florian Schneider lo aveva capito, viveva il futuro nel suo presente. Ora quel futuro è il nostro presente.