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[La recensione] “Dracula”, ovvero quanto amiamo affrontare il mostro e trovarci una parte di noi

La storia la conoscono tutti, non dovrebbe avere più misteri a quasi 123 anni dalla sua prima pubblicazione. Il fascino no, quello di Dracula continua a crescere negli anni, così come cresce la suggestione della letteratura gotica, sempre al confine tra il mistero e l’orrore. Così è per Lovecraft, Bierce e Poe, così continua ad essere per Bram Stoker e l’invenzione del conte vampiro che in preda al dolore rabbioso per aver perso la sua sposa suicida mentre lui difendeva la cristianità cattolica dai pagani, maledirà i simboli per cui combatteva e sfiderà Dio. Dannandosi in una immortalità che ha bisogno di sangue fresco e di tenebre per mantenersi tale. Al Teatro Massimo di Cagliari, nell’ambito del cartellone Cedac, è stato un grande successo (con notevole e insolita presenza di pubblico giovane) l’approdare del Dracula diretto e interpretato da Sergio Rubini, con un cast in gran forma che comprende Luigi Lo Cascio (Harker), Geno Diana (un impressionante Conte Dracula che recita in lingua slava), Margherita Laterza (Nina Harker), Roberto Salemi (il dottor Seward) e Lorenzo Lavia (è il folle Renfield, prima vittima del conte vampiro).

Nel buio c’è quel che temi di più: te stesso

Cupa, cupissima, ai limiti dell’impressionismo in certi momenti, la scenografia della riduzione teatrale di Rubini (che per sé ha ritagliato il ruolo di Van Helsing, la nemesi di Dracula) è come un nero tunnel che si popola di fantasmi psichici, qua e là psicanalitici (il rapporto tra infezione e smania sessuale che viene a galla nella figura di Nina, con tanto di nudo parziale in scena), di spaventi e del peggior terrore di tutti. Che è il non trovarsi più in sé, sentirsi andare fuori controllo per sempre, ammalarsi di qualcosa che non puoi controllare. Specie se la perdita di controllo ti rende socialmente pericoloso. Scritto e pubblicato poco prima che scadesse il XIX secolo, il Dracula di Bram Stoker imbastiva insieme leggenda e storia partendo dalla vicenda del principe di Valacchia Vlad Tepes, sanguinario campione della cristianità cattolica, con le paure e il gusto per l’orrore, l’irrazionale e il mistero che l’Europa portò con sé tra i carboni ardenti del Romanticismo che aveva sbattuto contro l’Illuminismo e i traumi della grande industrializzazione. Tutto questo mentre la psicoanalisi di Freud levava da sotto il tappeto le pulsioni ancestrali e represse di quel che siamo e che non possiamo sconfiggere col solo raziocinio. 

Il mostro dentro

L’adattamento teatrale di Rubini restituisce ciò che di più avvincente c’è in Dracula: tutti adoriamo avventurarci fin dove c’è il mostro per vedere se alla fine riusciamo a sconfiggerlo. Ma che succede se quel mostro è dentro di noi? Se ci svela quella parte che con la paura porta il piacere, il fascino, l’illusione di non avere limiti? La forza di Dracula è tutta qui, in quella luce sinistra che è l’unica a brillare fra tanta oscurità. C’è il buio nelle case borghesi perbeniste, negli ospedali che trattano da povero pazzo un Reinfeld la cui estasi non è poi tanto lontana da quella di Mina Harker, c’è il buio nell’anima di Jonathan Harker, vampirizzato orgiasticamente nel castello del conte tra i Carpazi e distrutto dalla sua impossibilità di essere “solo” un bravo marito e impiegato. C’è il buio nella scienza che non sa spiegare cosa sia davvero Nosferatu e come abbatterlo. Ci vorrà uno strano mix di stregone, ricercatore, scienziato qual è Van Helsing per venire a capo di tanto mistero orrendo. Ma quando la luce della normalità sembra tornare nelle vite di tutti, un refolo d’aria spalanca la porta e riempie la casa di fogli accartocciati. Il viaggio dell’eroe riprende. E noi ci siamo di nuovo dentro. 

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