“Agitazione, voglia di piangere, magari riuscissi, irrequieta, tanto, fiato corto, distanza da me. Cosa è? Mi sembra che non ci sia un posto dove possa essere serena, confortata, rassicurata. Posso farlo io se mi calmo. Solitudine, la mia. Tristezza, angoscia. Dove sei, vieni da me, non farmi male, tienimi tra le tue braccia, sono io, ricordi? È paura la mia? Ferma la testa. Cosa senti? Mi sento messa da parte. Fermati. Calma.
Il farmaco circola ma… ripercorriamo l’imprevisto durante la diretta, l’imprevisto, la paura, non so cosa dirò ma parlo e passa la paura..,. Io ora mi direi: stai tranquilla, non cercare di essere coerente sempre. Coerenza è essere in sintonia con quello che si prova in quel momento, sei volubile e lo sai, sei un torrente in piena di emozioni e sensazioni diverse. Non avere paura di apparire instabile. Hai bisogno di amore oggi? Prendilo? Odierai domani? Ci penserai domani. Step by step. Oggi , ora , sempre. Niente paura e se c’è si vive. Ricorda che sei unica”. Una lettera indirizzata a se stessa, profonda come l’oceano, disperata come sa soltanto chi decide di camminare sull’orlo dell’abisso e di guardare cosa c’è là sotto. Un flusso di coscienza impetuoso e sincero fino a far male ma necessario per ritrovare il ritmo del respiro e la capacità di alzare lo sguardo verso il cielo.
“Dietro le quinte delle mie paure” è un libro che resterà
Quello che ha scritto Paola Perego è un libro che resterà perché è davvero difficile trovare altrove uno specchio così fedele alla nostra difficoltà di vivere. Un libro che lei, maestra di understatement, minimizza nel descrivere semplicemente come “la mia storia, senza la pretesa di voler insegnare niente a nessuno”. Ma che invece oltre ad avere la capacità di parlare agli abissi e alle paure che ognuno di noi nasconde dentro il proprio stomaco, ha anche il merito di restituirci una Paola Perego finalmente scevra dai pregiudizi e dalle fastidiose etichette che le sono state appiccicate addosso per troppi anni e che lei, impegnata e a ratti sfinita dalla battaglia quotidiana con il suo “mostro”, non si è troppo curata di combattere per ripristinare la verità. Altro che l’amazzone forte e determinata a tutto. Sotto quella magnifica corazza che per anni il piccolo schermo ci ha restituito sorridente e professionale, si agitava una donna schiacciata dal peso, davvero insostenibile, di volersi fare carico delle sofferenze dei suoi cari, in una generosa ma malsana forma di amore che stava finendo per soffocarla. Una donna prigioniera di troppi doveri da assolvere sempre e comunque, che aveva finito per dimenticarsi i desideri da soddisfare, i sogni da rincorrere o semplicemente i malesseri da sfogare.
Paola, nel tuo libro “Dietro le quinte delle mie paure”, gli attacchi di panico che hanno condizionato la tua esistenza per una trentina di anni li hai battezzati “il mostro”. E ripercorri questa lunga guerra con il mostro, fatta di tantissime battaglie, piccoli passi in avanti e improvvise scivolate ancora più in fondo. Però poi alla fine, proprio dell’ultimo capitolo, ti rivolgi direttamente al tuo mostro con parole di affetto, volendogli bene. Perché è parte di te. Come sei arrivata a questa conclusione?
“Quando hai gli attacchi di panico ogni volta che vai da un medico nuovo, ogni volta che inizi un nuovo percorso di analisi, pensi che quel qualcuno ti strapperà il mostro dalle spalle e tu sarai finalmente libera. Quando invece arrivi a conoscere davvero te stessa capisci che il mostro non è cattivo. È qualcosa che c’è dentro di te e ti dice: “è inutile che fai finta di niente”. Guarda che tu hai ancora delle cose da risolvere. È un segnale d’allarme. Addirittura un aiuto. Ma lo scopri solamente dopo”.
E le cose che avevi da risolvere quali erano?
“Intanto la conoscenza profonda di me. A partire dalle cose più banali. Riconoscere i sentimenti, i desideri, quello che voglio e quello che non voglio, quello che mi fa stare bene e quello che non mi fa stare bene. Questa è stata la cosa fondamentale. Perché io ero quello che gli altri volevano che io fossi. Ma c’era questa parte di me che invece sussurrava: “Guarda che non è proprio così, guarda che non stai facendo ciò che ti piace. Guarda che forse dovresti agire in un’altra maniera. Il mostro non era altro che questo”.
Lucio Presta e Paola Perego, innamorati da 23 anni.
Devo dire che la “sindrome del soldato” me l’hai sempre suggerita ogni volta che ti ho intervistata.
“Eh sì, quello poi non è altro che il senso del dovere di mio padre: “Tu devi comunque lavorare, devi mantenerti, devi riuscire a essere autosufficiente”. Che poi era la paura dei genitori dell’epoca in famiglie come la mia, dove i soldi non abbondavano. Anzi. Si dovevano fare i conti con tutto. Io sono partita dal niente, anche se da giovanissima modella c’era chi pensava che avessi una famiglia ricca alle spalle. Ma non mi sono mai vergognata delle mie origini umili. È stato anzi un motivo di orgoglio per me. L’unica cosa è che mi viene da sorridere quando c’è chi, magari sui social, ti butta addosso sentenze e pregiudizi, del tipo “Ma che ne sai tu della crisi?”. Beh, io invece ne so talmente tanto che capisco i problemi della gente e che, all’occorrenza so vivere di niente perché di niente ho vissuto per tanto tempo. Poi, certo, lo so che a “quelli della televisione” viene sempre richiesto di essere sorridenti e perfetti. E invece, sai che c’è? Io posso essere triste, ho la cellulite e pure le rughe”.
In più, oltre al senso di dovere, ti facevi carico del benessere materiale e psicologico dei tuoi cari, fossero le aspettative di tua sorella o le delusioni dei tuoi genitori…
“Mi caricavo tutto il mondo sulle spalle. Una mania di onnipotenza. Pensavo di poter risolvere i problemi delle persone cui volevo bene, vivevo solo per gli altri senza mai chiedermi cosa volessi io. Ma la mia era un’illusione pericolosa: non puoi decidere il destino delle persone. Vai incontro a un continuo senso di frustrazione e inutilità. Non conoscevo la leggerezza”.
Oltre all’analisi e ai farmaci, credo che una grande importanza l’abbia avuta anche l’incontro con l’amore della tua vita, Lucio Presta. Il 1997 per te è stato uno scossone. Mi ha molto colpito la descrizione che fai di quel vostro primo romantico week end da soli funestato da un improvviso attacco di panico. Lui non sapeva niente del tuo inferno, eppure ha saputo tirarti fuori da quell’attacco.
“Vedi, Lucio mi ha fatto sentire accettata per ciò che sono. Accanto a me con lui ho conosciuto una persona non giudicante”.
Nel libro descrivi di quando ti ha preso il viso tra le mani e ti ha detto che lì, in quel posto segreto e inarrivabile, c’eravate soltanto tu e lui e potevate confessarvi l’inconfessabile.
“Sì, è quella che noi due chiamiamo “casetta”. È una specie di rito che rispolveriamo tutt’oggi, ma solo se c’è qualcosa di veramente difficile da affrontare”.
A Lucio ti unisce anche un destino comune, quello di essere entrambi vittime di pregiudizi. Tu eri l’algida e la perfettina poco empatica, lui lo squalo interessato a potere e denaro. E invece la realtà, come anche Lucio ha raccontato nel suo libro uscito un anno fa, era ben diversa per entrambi.
“Credo che il nostro rapporto continui a funzionare così bene anche dopo 23 anni proprio perché Lucio ed io ci siamo capiti subito. E insieme siamo realmente noi stessi, al di là dei pregiudizi e delle etichette”.
Tornando al “mostro”, pensi che aver sempre nascosto a tutti gli attacchi di panico di cui soffrivi abbia in qualche modo aggravato e ritardato la tua “guarigione”? Tornando indietro, ti comporteresti diversamente?
“Assolutamente sì. Lo direi subito a tutti. Vivere di nascosto quei momenti, vergognarmi per i farmaci, imbottirmi di medicine per andare in onda: sono stati motivi di ulteriore sofferenza per me. Il fatto è che quando per la prima volta si sono manifestati gli attacchi di panico io ero giovanissima. Avevo appena 16 anni e a quell’epoca nessuno ne capiva nulla. I medici dicevano che ero sana o al limite se ne uscivano con la diagnosi di esaurimento nervoso”.
Nei trent’anni in cui il “mostro” è stato con te qual è stato il momento più buio?
“Sai, gli attacchi sono tutti brutti uguali. Tu pensi di morire e ti senti morire e non riesci più a fare nulla. Sei bloccata dentro una bolla di dolore nella quale è difficilissimo entrare”.
C’è un capitolo del libro che si intitola “dipendenza”: in quel caso ti riferivi al rapporto con il tuo primo marito, Andrea Carnevale, che non capiva quanto male tu stessi e anzi ti spronava in maniera un po’ superficiale a darti una mossa. Eppure tu reagivi ancora una volta buttando il cuore oltre l’ostacolo e imponendoti di farcela. Una strana dipendenza psicologica…
“Ho capito solo più avanti che non puoi diventare dipendente da chi hai a fianco. Devi imparare a stare bene con te stessa e a quel punto sei tu che “scegli” chi vuoi davvero accanto a te”.
Hai nascosto per tanti anni gli attacchi di panico perfino ai tuoi due figli, Riccardo e Giulia. Come hanno reagito leggendo questo libro?
“Mi nascondevo dai miei figli. Io potevo essere solo wonder woman. Ero terrorizzata che potessero conoscere il “mostro”. Poi una neuropsicologa mi ha spiegato che se non mi fossi mai mostrata triste o frustrata, non avrebbero mai imparato a esserlo anche loro e a gestire quegli stati d’animo. Giulia comunque non credo abbia ancora letto il libro: ha i suoi tempi e in questo periodo è impegnatissima col bimbo piccolo. Riccardo lo ha divorato in una notte e mi ha detto che finalmente ha capitole le tante volte in cui improvvisamente non andavo a vedere le sue partite, i miei mal di testa improvvisi. Credo che ci abbia ancora più uniti”.
So che in autunno ti aspetta un nuovo programma in Rai. Ti è mancato il video in quest’ultimo anno?
“No, perché dovevo fare la mamma con Giulia che aspettava il suo bimbo e perché avevo il libro da scrivere. E poi dopo 36 anni di onorato lavoro non sento di dover dimostrare più niente a nessuno. Mando avanti i progetti in cui credo. Ma il mio lavoro non è più la mia vita, è solo una parte di questa. Lo amo, è il lavoro più bello del mondo ed è anche l’unica cosa che so fare ma io sono molto altro: ho la mia famiglia, i miei amici, le mie passioni, i miei tanti interessi”.
Il fatto di essere la moglie del più importante agente dello spettacolo ti ha nuociuto?
“In certi momenti sì. Lucio è così moralmente onesto che non mi propone mai, anche se per anni tante malelingue hanno sostenuto il contrario. Per fortuna ormai non li ascolto più, che si sfoghino anche se non credo facciano una bella vita”.
Una donna e un uomo con i quali ti piacerebbe battezzare un nuovo progetto tv?
“Simona Ventura. Una sera ne abbiamo parlato e ci siamo molto divertite a immaginarci insieme a condurre un programma, noi così diverse ma anche simili. Sugli uomini, direi due amici come Paolo Bonolis e Amadeus. In genere preferisco lavorare con le donne. E se lo faccio con gli uomini , inseguo la sintonia che ho con i veri amici”.
Un progetto? Un sogno? Anche se immagino già la risposta…
“Al massimo decido la sera prima. Ho imparato a navigare a vista”.