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Tv: Andreatta, in ‘Boez – Andiamo via’ il senso etico del servizio pubblico 

 

“In questa storia si rispecchia il senso etico del servizio pubblico in un rapporto anche speciale con le istituzioni, in questo caso il Ministero della Giustizia che è stato indispensabile interlocutore per costruire questa possibilità di racconto”. Eleonora Andreatta, direttore di Rai Fiction, riassume così il senso per la Rai di ‘Boez – Andiamo via’, docu-serie in 10 puntate di 30 minuti, che dal 2 al 13 settembre alle 20,20 su racconterà il viaggio a piedi di sei ragazzi condannati per aver infranto la legge ed in regime di detenzione, interna ed esterna. Un viaggio/pellegrinaggio di oltre 900 chilometri da Roma a Santa Maria di Leuca, che sperimenta il cammino come dispositivo di recupero. Una pena alternativa già praticata in altri Paesi europei e che abbatte le percentuali di recidiva. “Questo progetto rispecchia quello che è il senso profondo del nostro lavoro a Rai Fiction, costruire racconti che hanno come punto di riferimento la contemporaneità e l’attualità. Questa storia elimina le intermediazioni della trasposizione in fiction per andare direttamente nella materia viva di un racconto documentario. Questa forma di narrazione – sottolinea Andreatta – è particolarmente vicina a quello che è anche lo spirito di Rai3, la rete per cui Rai Fiction ha costruito questo racconto, una rete che pone al centro della propria linea editoriale il racconto della realtà, delle persone”.

“In questo caso la televisione interagisce con quello che è il percorso esistenziale delle persone che narra e lo fa con una modalità che è l’opposto di quella del reality, cioè non ostentando, spettacolarizzando quello che è la vita ma anzi con grande pudore, entrando in punta di piedi all’interno della storia che si sta svolgendo, in cui questi ragazzi si sono messi in gioco. Il titolo ‘Boez’ trae ispirazione dalla firma di un writer, un giovane nel iome del quale Rai Fiction ha voluto raccontare la storia di riscatto di altri giovani”, dice ancora Andreatta. Una dedica in memoria, quella a Boez.

La docu-serie è firmata alla regia da Roberta Cortella e Marco Leopardi, scritta da Paola Pannicelli e dalla stessa oberta Cortella che spiega come il progetto si sia sviluppato a partire dal documentario ‘La retta via’ che lei e Leopardi realizzarono nel 2009: “Allora raccontammo una storia analoga, riguardava solo due giovani che in Belgio dovettero seguire un analogo percorso di rieducazione. Allora come ora – sottolinea Cortella – la troupe è diventata parte di una comunità in cammino, azzerando la distanza dai ‘protagonisti’. La fatica, la stanchezza azzerano ogni tipo di barriera, tutto diventa solo un rapporto tra persone. Per questo credo che, come già nella precedente esperienza, la presenza della troupe non mini il senso del percorso di riabilitazione. Sulla strada si diventa tutti parte dello stesso gruppo.”

‘La retta via’ raccontava la storia di Ruben e Joachim, due giovani detenuti belgi di 17 e 16 anni che l’Ong Oikoten aveva selezionato per partecipare a uno speciale programma di rieducazione: Ruben e Joachim dovevano percorrere oltre 2.500 chilometri a piedi tra Belgio e Spagna, seguendo l’antico Cammino di Santiago de Compostela. A percorso compiuto, seguendo le regole, il ritorno alla libertà graze a uno sconto di pena. In ‘Boez’ i ragazzi coinvolti sono sei, in marcia con loro una guida e un’educatrice, “la strada che abbiamo seguito è stata più o meno la via Francigena, l’Appia antica, partendo dal Colosseo e arrivando al mare di Santa Maria di Leuca”. Un’immagine, ragazzi che arrivano al mare, che può far pensare al finale di ‘I quattrocento colpi’ (1959), primo lungometraggio di François Truffaut, con Antoine Doinel, ragazzino in fuga che arriva al mare, entra in acqua con le scarpe e infine si volta a guardare lo spettatore, con il famoso fermo immagine finale del suo sguardo consapevole.

In ‘Boez’, come nel film di Truffaut, forse quel che conta di più è quello che viene dopo, gli esiti della marcia che i ragazzi compiono sulla strada e dentro di se: “la marcia, per loro ma anche per noi che l’abbiamo condivisa, è stata la fase epica, poi c’è il contraccolpo. E’ ovvio che in due mesi non si può cambiare esistenza, ma si può gettare un seme, interrompere un circolo vizioso, imparare a porsi e a essere percepiti diversamente. Per le persone incontrate lungo il cammino, e in tanti ci hanno accolto e aiutato, anche immigrati extracomunitari, i ragazzi erano semplicemente persone in marcia, camminatori. Dopo il viaggio ci sono state cadute, si sono rialzati, hanno avuto dubbi e paure ma hanno imparato che esiste altro da ciò che conoscevano e che erano. Sono cambiati”. Anche Roberta Cortella è cambiata: “Quella strada mi ha cambiato la vita, con i ragazzi ci sentiamo continuamente, uno di loro abita con me, con un’altra abbiamo passato le vacanze insieme e per la presentazione del programma ci siamo tutti accampati a casa mia. Il mio ruolo di regista si è trasformato in quello di zia“.

I ragazzi che hanno camminato con Roberta sono Alessandro: un’esistenza trascorsa in strutture per minori e carceri. Ha sempre inseguito il soldo facile, ma la vita di strada gli ha spento le emozioni. Intelligente e riservato, coltiva una grande passione, la scienza. Sogna di poter studiare per diventare astrofisico. Sottoposto ad esecuzione penale esterna, lavora presso il cimitero del suo paese. Nel cammino vede l’opportunità di ricostruire se stesso e di trovare nuovi stimoli per un radicale cambiamento di vita. Maria: Unica femmina in una famiglia in cui attenzioni e affetto sono solo per i fratelli maschi, Maria ha il destino segnato: a 14 anni la “sposano”, poi la costringono a rubare. Le imposizioni di suo padre e le tradizioni della comunità Rom nella quale è nata la soffocano; abbandona tutto e comincia a vivere di espedienti, finché viene accolta dalla Comunità “Il fiore del deserto”. Affronta il cammino con un tenace desiderio di riscatto e di libertà, alla ricerca di una vita serena e onesta.

Omar: nato e cresciuto in una città industriale della provincia lombarda; mamma di Napoli, papà tunisino. Da ragazzino trascorre le giornate per strada, insofferente alla scuola, alle regole. Entra ed esce dal carcere minorile. Dopo aver combattuto contro l’obesità che lo ha mortificato fin da bambino, ha intrapreso un percorso di reinserimento. Vede nel cammino la possibilità di affrontare un’altra sfida, che gli dia maggiore sicurezza e forza per restare sulla retta via. Francesco: cresciuto all’ombra del padre, boss della malavita locale, corrisponde al cliché dell’enfant prodige, con un curriculum di reati che lo porta dritto dritto in carcere e per molto tempo. Poi entra nella Comunità “Emmanuel” e decide di dire no definitivamente al crimine e di aiutare i ragazzi più giovani di lui. Durante il cammino ce la mette tutta; arrivare fino alla fine per lui significa anche dimostrare di poter cambiare malgrado un destino già segnato dalla sorte.

Kekko: ironico e allegro, sta finendo di scontare la sua pena come tuttofare in una casa famiglia; il resto della giornata lo passa allenando il suo corpo pluritatuato e divorando ore di reality davanti alla TV. Nonostante la risata prorompente, i suoi occhi rivelano l’ombra di un’infanzia segnata da violenze e privazioni. Sogna di intraprendere il cammino per ritrovare il proprio sé che ha perso da tanto tempo. Per lui apparire in una serie TV significa anche poter dimostrare a tutti di essere finalmente sulla strada giusta. Matteo: Timido e di poche parole, la recente morte della mamma lo ha segnato nello sguardo e nell’animo. Durante la reclusione anche i contatti con il fratello, a cui era tanto legato, si sono diradati lasciandolo completamente solo. Dopo cinque anni di carcere, il cammino rappresenta per lui la possibilità di uscire definitivamente da una cella e tornare a vedere il cielo. Intraprende il lungo percorso nella speranza di fare esperienze di cui sua madre sarebbe stata orgogliosa.

 

 

 

Adnkronos.

 

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