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5 giugno: dal 2010 niente è più uguale

E’ difficile oggi restituire pienamente sensazioni e sentimenti di quel 5 giugno del 2010 in cui Francesca Schiavone ha conquistato il titolo degli open di Francia battendo in finale al Roland Garros l’australiana Sam Stosur.

Nel decennio seguito a quel giorno abbiamo vissuto tante altre emozioni e soddisfazioni grandissime. Alle imprese delle donne (che al tempo avevano già messo a segno due vittorie in Fed Cup, la Davis al femminile) si sono aggiunte quelle degli uomini (Fognini-Bolelli che vincono il doppio in Australia, Cecchinato in ‘semi’ a Parigi, Berrettini in ‘semi’ agli us Open e vincitore di un match alle Atp Finals).

Allora, prima del 5 giugno 2010, il mantra era: “mai una gioia”, coniato dallo storico cronista Rino Tommasi. Mai una grande gioia per il tennis azzurro dalla fine degli Anni Settanta.

Per chi, come il sottoscritto, aveva cominciato a lavorare in una redazione sportiva specializzata nel 1986, erano passati 24 anni di tennis quotidiano con al massimo un “quarto di finale” da festeggiare come fosse la conquista della vetta dell’Everest: Laura Golarsa a Wimbledon nel 1989, Cristiano Caratti in Australia nel 1991, Renzo Furlan a Parigi nel 1995, Davide Sanguinetti a Wimbledon nel 1998, Silvia Farina a Wimbledon nel 2003. La stessa Francesca Schiavone agli Us Open nel 2003 e a Wimbledon nel 2009. Tutto qui.

Nel frattempo Roger Federer da solo era arrivato per 26 volte consecutive nei quarti di finale degli Slam. Un giocatore come lo spagnolo David Ferrer ha fatto meglio negli Slam che tutti gli azzurri dal 1980 in poi.

Poi è arrivata Francesca. A Parigi. E da lì è stata davvero un’altra storia. Per provare a restituire quell’atmosfera e quei sentimenti del 2010, la cosa migliore mi è sembrata tornare a quello che era stato allora il mio editoriale sulla rivista “Il Tennis Italiano”, che dedicò l’intero numero a quell’evento storico.

Rileggendolo si sono riaccese le emozioni di allora. Lo ripropongo qui di seguito. Grazie Francesca.

Niente è più uguale

Quelli che la conoscevano bene hanno pianto. Come non commuoversi quando una come te, della tua città, del tuo quartiere, della tua via, afferra il suo sogno? Come non sentirsi gli occhi umidi quando Francesca Schiavone si guadagna, con l’ennesima magia della sua racchetta, l’opportunità di giocarsi il primo match point nella finale del Roland Garros e salta già di gioia? Deve ancora prendersi quel punto decisivo ma sente di averlo tra le mani, sa che ormai non le sfuggirà.

Sa di avercela finalmente fatta.

Un italiano che vince un titolo del Grande Slam è una cosa che aspettavamo come il messia ma alla quale avevamo smesso di credere.

Trentaquattro anni di astinenza ti abituano a considerare impresa la conquista di un “quarto di finale”. Vincere non rientra nelle ragionevoli possibilità.

Poi arriva la “Schiavo” di Parigi e infila una gran partita dopo l’altra. Arriva ai quarti di finale ma non si ferma: batte la Wozniacki, n.3 del mondo.

E’ la prima italiana in semifinale dall’impresa di Silvana Lazzarino nel 1954 ma non si ferma: batte Elena Dementieva, n. 5 del mondo.

E’ la prima italiana di sempre a raggiungere la finale. Sarà appagata, pensiamo in tanti, abituati ad accontentarci. Ma lei non si ferma.

“Niente è impossibile” c’è scritto sulle magliette che le sue tifose hanno stampato alla vigilia della finalissima. E’ il suo credo.

Francesca gioca una partita perfetta. Coraggiosa, intelligente, emozionante per la meraviglia tecnica e la lucidità tattica delle giocate. Prevale negli scambi su una tennista più potente di lei. Chiude a rete dei punti nei quali si trova inizialmente a doversi difendere con i denti. E quando arriva il tie-break del secondo set e tutti noi, abituati all’italiano che se la fa sotto nei momenti decisivi e non sa giocare i punti importanti, siamo paralizzati dalla tensione, dalla paura di perdere, lei vince facile.

Da bella diventa stupenda. Si va a prendere tutti i punti. Li conquista a rete, da fondo, di forza e di classe. Domina. Riscrive la nostra storia e ci rivolta come dei calzini.

Ci fa piangere di gioia ma ci schioda dalla nostra comoda mediocrità, dal tran tran del “vorrei ma non posso”.

Adesso, che cosa ce ne facciamo di un “quarto di finale”? Come ci possiamo sentire soddisfatti al n.30 del mondo? Che cosa giochiamo a fare se non sogniamo di vincere Wimbledon?

Niente è più uguale a prima nel tennis italiano dopo la vittoria di Francesca. Sono saltati tutti i parametri. Si può sognare ma non ci si può più accontentare. Perché Francesca non è una super donna, non ha avuto vantaggi particolari da Madre Natura, né aiuti particolari dagli sponsor quando più serviva (nel passaggio dall’attività giovanile a quella professionistica).

Non è alta un metro e ottanta; non è russa-bionda-coscia lunga: non è figlia di papà, non è stata enfant prodige, non l’ha allenata gratis Bollettieri, arriva al successo a trent’anni. Dunque basta lamentarsi, trovare scuse, tirare a campare. Tutti ce la possono fare, se sono disposti a mettersi in gioco co fino in fondo.

“E’ una città piena di perdenti e io me ne vado per vincere” grida uno degli eroi di Bruce Springsteen in Thunder Road, la sua canzone più amata, mentre sta per partire, finestrini abbassati, verso un avvenire diverso da quello di tante vite rassegnate nella periferia americana. Ci sembra di vederla Francesca, sulla sua moto, infilarsi il casco e dare gas. Ora tocca agli altri, tocca a noi. La strada è segnata.

La Foto Gallery del trionfo di Francesca Schiavone al Roland Garros nel 2010

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