Quando mancano cinquanta secondi al trionfo e alla cascata di coriandoli, due giocatori dei Lakers celebrano lontano dal campo, dietro uno dei canestri. LeBron James stringe da dietro Anthony Davis con un lungo abbraccio che racchiude la chiave di questa stagione. La coppia meglio assortita degli ultimi vent’anni porta i Los Angeles Lakers al 17° titolo della storia e un uomo nel Pantheon dei più grandi di sempre. A 35 anni LeBron diventa il primo nella storia Nba a vincere quattro titoli con tre squadre diverse, unico a conquistare il titolo di Miglior giocatore delle finali con tre maglie diverse, unico con più di 25 punti di media ai playoff con tre franchigie. LeBron, sempre più The King, ha raggiunto Michael Jordan e Bill Russell come unici nella storia a vincere il titolo di mvp in almeno quattro finali e nella stagione regolare. Ma poiché nessuno, nemmeno il padrone assoluto del campionato, può vincere da solo, anche LeBron sa di essere entrato nella storia grazie a Davis, al primo titolo Nba della carriera, grazie a Rajon Rondo, e a tutti gli altri, che si sono riscattati dal torpore che aveva consentito a Miami di tenere aperta la serie.
A due giorni dal drammatico finale di gara5, quando Danny Green aveva sbagliato il tiro della vittoria dopo aver ricevuto palla da LeBron, stavolta non si è riproposto il dilemma se The King si sarebbe preso la responsabilità del tiro decisivo. Gara6 è stata una manifestazione di potenza della Lakers Nation, di nuovo tremendi in difesa, capaci di tenere gli Heat a solo 58 punti alla fine del terzo quarto, e vincere alla fine 106-93 dopo aver chiuso all’intervallo a +28 (64-26). “Avete fatto una difesa capolavoro”, aveva detto alla squadra nel timeout prima del quarto fianle, il coach, Frank Vogel, al suo primo trionfo da allenatore.
La grande difesa, come da manuale, ha reso l’attacco più fluido. Stavolta è arrivato il sostegno di tutti anche nei punti: ai 28 punti di LeBron (più 14 rimbalzi e 10 assist), si sono aggiunti i 19 di Davis, gli 11 di Green, i 17 di Caldwell-Pope e i 19 di Rondo. Miami, che ha ritrovato Goran Dragic, si è schiantata sul muro di maglie bianche: Jimmy Butler si è fermato a 12 punti (6 su 12), Duncan Robinson a 10 (6 su 15), il giovane rivelazione Tyler Herro ha chiuso per la prima volta una gara di playoff senza andare in doppia cifra. Per lui solo 7 punti e 4 canestri realizzati su 12 tentativi.
I 25 punti di Adebayo sono frutto della scelta difensiva di Los Angeles, che ha pensato più a contenere gli altri giocatori razzo, capaci di ribaltare l’equilibrio. Fermati loro, la partita ha preso una direzione definitiva fin dall’inizio. Con il passare dei minuti, e con il divario che si è allargato presto verso i venti punti, a Miami è calata tutta la stanchezza di questi novantasei giorni di basket nella bolla di Disneyland. Basti un dato: l’insolito 59,1 per cento ai liberi, con 13 centri su 22 tentativi. Ma se questa finale è stata bellissima è anche grazie al cuore mostrato dagli Heat nelle prime cinque sfide e al genio del suo coach, Erik Spoelstra. Pensare che Los Angeles e Miami un anno fa neanche erano entrate nei playoff.
La cerimonia di premiazione segue la tradizione come se fosse una stagione normale: il commissioner Adam Silver, l’altro grande vincente della serata, capace di portare 22 squadre e 1300 persone a Disney e condurre a termine la stagione senza una sola partita rinviata per il Covid, celebra la vittoria dei Lakers, ricorda Kobe Bryant, ribadisce l’impegno civile nel segno di Black Lives Matter, ringrazia tutti quelli che si sono dati battaglia in campo, e si sono aiutati fuori, rispettando il rigido protocollo sanitario, perché lo spettacolo continuasse. E così è stato. Questa finale, seppure giocata in una bolla, con il pubblico virtuale, ne è stata la prova: si è giocato un basket formidabile e reale. La coreografia, l’effetto audio e le giocate, hanno fatto dimenticare la pandemia. Solo l’Nba, che si è confermata la lega sportiva più organizzata al mondo, poteva riuscirci. Forse può essere un esempio, forse non lo sarà mai. Vedremo.
Fonte www.repubblica.it