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Ciao Gustavo. Se ne è andato un grande allenatore

E’ scomparso l’allenatore col colbacco. Da tempo era malato. Apparteneva a qual calcio “genuino” che da tempo non c’è più. Mantova gli dedicherà una via o una piazza. E’ stato un innovatore ed un grande uomo

Si era ritirato da tempo e da tempo era malato: a 85 se n’è andato Gustavo Giagnoni. A lui, l’allenatore che sull’uso del colbacco come copricapo aveva costruito un personaggio, ogni appassionato di calcio, per salutarlo, dovrebbe toglierselo il cappello, perché Giagnoni non è stato solo un personaggio ma, soprattutto, un grande allenatore e anche un ottimo giocatore.

Giagnoni era stato dimenticato da tempo, da decenni, perché da noi, a differenza dell’Inghilterra, non c’è rispetto per la storia di questo sport.  Eppure Giagnoni ha fatto cose memorabili, su tutte lo scudetto sfiorato, anzi rubato (ci scusino i tifosi juventini), nella stagione 1971/72, quando portò i granata a lottare per il titolo a ventidue anni dalla tragedia di Superga. Il Toro duellò per tutto la stagione con Juventus e Milan e fu estromesso dalla vittoria finale solo da due decisioni molto discutibili: un gol annullato ad Agroppi in Sampdoria-Torino (palla abbondantemente oltre la linea di porta e respinta, guarda gli scherzi del destino, da un giovane Marcello Lippi in maglia blucerchiata) ed un altro a Toschi nello scontro diretto col Milan a San Siro.

Le polemiche dopo i due episodi furono roventi e Giagnoni divenne un monumento del tifo  granata e di quella parte d’Italia che non tifava Juventus per le sue battute pungenti e avvelenate sui bianconeri e gli arbitraggi. L’anno seguente, poi, nel corso di un derby infuocato, Giagnoni esagerò ma impresse per sempre il suo nome nel cuore dei tifosi del Toro. Dopo un gol del bianconero Cuccureddu, il suo compagno di squadra Causio ebbe l’infelice idea di sfottere Giagnoni, che gli rispose “ragazzo, stammi alla larga!” Il barone, invece, continuò a dileggiare i rivali. Giagnoni si alzò dalla panchina, spostò il guardalinee che si frapponeva tra lui e Causio per dirigersi verso lo juventino e stenderlo con un destro allo zigomo. L’espulsione fu inevitabile, ma, alla fine della partita, Giagnoni fu portato in trionfo dai suoi tifosi.

A Gustavo Giagnoni si deve la nascita del cosiddetto  “tremendismo granata”. Il termine fu coniato, proprio nel 1972, dallo scrittore Giovanni Arpino che per tremendista intendeva: “il giocatore, il club che magari non vince grappoli di trofei, ma costituisce osso durissimo per chiunque. Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai vinta, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango: tutto questo significa tremendismo, un termine che da quando l’abbiamo adottato è riuscito a creare invidie di cui andiamo orgogliosissimi”. Tremendisti erano, oltre a Giagnoni stesso, Agroppi e il leggendario capitan Ferrini, Paolino Pulici e il difensore Cereser.

Dopo gli anni d’oro di Torino, Giagnoni ascoltò le sirene del Milan, in fase di ricostruzione, e sbagliò scelta, perché a Torino andò Radice che, raccogliendo i frutti del suo lavoro, vinse un indimenticabile scudetto nel 1976, mentre l’allenatore col colbacco, che non era uomo di compromessi, entrò in rotta di collisione con Rivera, rimediando un esonero nella stagione successiva. Seguirono altre squadre ed esperienze negative (Roma sponda giallorossa) e positive (Cremonese portata in serie A) ma mai qualcosa che assomigliasse agli anni di Torino, dove gioco espresso non era solo tremendismo e tanta grinta. Giagnoni, negli anni ’70, era considerato, a ragione, uno dei più illuminati innovatori del nostro calcio. Il suo carattere sincero ma troppo ruvido e le dichiarazioni contro la Juventus e gli arbitri non furono ben viste dal Palazzo. Forse tutto questo mise un freno ad una carriera che prometteva ben altro.

Non va dimenticato, però, il Giagnoni calciatore, storico capitano del Mantova che con Mondino Fabbri in panchina e Italo Allodi dietro la scrivania, salì, in soli cinque anni, dalla serie D alla serie A! Quel Mantova giocava così bene da meritarsi l’appellativo di piccolo Brasile.

Pochi anni dopo, nel 1966, quando Fabbri, giunto alla guida della nazionale dopo i miracoli col Mantova, uscì dal mondiale in Inghilterra per colpa dell’ignobile sconfitta con la Corea, confidò ad un amico: “se avessi portato Giagnoni non ci avrebbero eliminato”.

La leggenda narra che Giagnoni non fece parte della spedizione azzurro non tanto per l’età (34 anni) quanto perché Fabbri ebbe paura di essere accusato di favoritismi verso uno dei suoi giocatori preferiti. La mancata convocazione in nazionale rimase una delle sue delusioni più grandi, insieme allo scudetto scippato nel 1972 e al dimenticatoio dov’era scivolato in mezzo ai suoi diecimila ricordi.

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