Orgogliosa, la Serbia sventola la sua bandiera e sorride e festeggia e invade il web di selfie. Orgoglioso, l’alfiere del paese, Novak Djokovic, riscatta fieramente la piccola nazione marchiata dalla guerra fratricida nei Balcani dei primi Anni Novanta, segnata da una condizione economica certamente non felice, ma ricca di una gioventù bella, florida, ideale per tutti gli sport. Questa è l’immagine della prima ATP Cup che Novak Djokovic, Dusan Lajovic e Viktor Troicki hanno strappato a Sydney dalle mani di Nadal e compagni. Una coppa luminosa come la luce unica di quel paese e come questa manifestazione piena di star come dev’essere una vera gara per nazioni.
“Ricorderò quest’esperienza per il resto della vita, come uno dei momenti più piacevoli della carriera”, proclama Novak, rigenerato nello spirito dal formidabile gruppo, arricchito dai fratelli. “Sono stato molto fortunato e benedetto di aver avuto una grande carriera negli ultimi quindici anni, ma giocare per la squadra, per il paese con alcuni dei miei migliori amici di vecchia data non ha pari. E’ stato troppo speciale”.
Ci sono stati i compagni: “Facciamo parte di uno sport individuale, dove giochiamo per noi stessi. Ma anche quando abbiamo disputato in singolare, non ci siamo sentiti da soli, abbiamo sempre avvertito la presenza della squadra, e questo ci ha dato più forza e concentrazione”.
E ci sono stati gli spettatori, i 220,319 spettatori che hanno seguito i dieci giorni di gare fra Brisbane, Perth e Sydney. Spettatori soprattutto tifosi sfegatati, tra cui moltissimi immigrati o figli di immigrati dalla natìa Serbia, e quindi ancor più affamati di riscatto, attraverso le gesta della propria nazionale.
Spettatori rumorosi e anche indisciplinati. Che gli arbitri hanno anche richiamato e redarguito, ma che lo stesso Djokovic ha chiesto di rispettare al giudice di sedia: “Gli annunci fateli in inglese, non solo in serbo”.
Spettatori che sono il sale di una Coppa, com’erano quelli di Davis prima della rivoluzione-Piqué e quindi della sede unica per la fase finale. “Non ho mai vissuto un’esperienza così su un campo da tennis… Ci avete portato alla vittoria e vi dobbiamo un grande, grande, grazie”. Gli ha infatti detto, commosso, al microfono in campo re Novak dopo la rimonta da 1-3 del doppio decisivo contro gli spagnoli.
Re, proprio re, autentico re, del suo paese e di un tennis passionale che a tratti riemerge impetuoso e irresistibile fra le pieghe di un gioco sempre più duro ed essenziale. Un tennis che rispolvera parole come amicizia.
“Voglio ringraziare Novak per aver fatto coppia di nuovo con me, è stata un’altra grande esperienza, ricordo di averci giocato contro sin da quando ho dieci anni. Non riesco descrivere le emozioni nel dividere momenti così, sul campo, insieme a lui. Lo ricorderò per sempre”, si è commosso infatti Troicki. Che aveva chiuso male l’ultimo capitolo di Davis come spalla di Djokovic, smarrendosi nei quarti di novembre a Madrid contro i russi Khachanov e Rublev al tie-break del terzo set.
“Non sono riuscito a mantenere la concentrazione fino alla fine, ho sbagliato nei momenti cruciali, ho deluso la mia squadra e l’ho portata giù”, aveva detto dopo i tre match point falliti. Afflitto, disperato, in lacrime come i compagni. Allora, Nadal aveva vinto singolare e doppio contro l’Argentina e poi era stato l’eroe anche della finale.
Stavolta è toccato a Djokovic. Che, nell’imminenza degli Australian Open, da numero 2 della classifica, rilancia la sfida al primato e agli Slam al numero 1, Rafa. Grazie alla squadra, alla bandiera, al paese, allo spirito che sembrava aver di nuovo smarrito dopo Wimbledon dell’anno scorso. E poi c’è l’alleato più caro: il cemento che esalta i suoi colpi e riduce quelli carichi di top spin di Nadal. Ma questa è un’altra storia.