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Da Warholm a Duplantis: teniamoci le nuove stelle, tanto un nuovo Bolt non ci sarà mai più

Padre Bolt (ha avuto una figlia) va lasciato in pace. L’atletica non riesce. E’ come uno spauracchio. Lo si invocava. Ci si augurava che tornasse. Lui stesso, una volta appeso le scarpe chiodate al chiodo, riconobbe che non ci sarebbe mai stato un altro come lui, capace di doppiare con imbarazzante, disumana naturalezza, 100 e 200, sui podi olimpici e mondiali, come se gli altri non esistessero, a quel suo livello di perfezione. Pochi mesi fa, il presidente della World Athletics, Lord Sebastian Coe, ci disse: “Basta parlare di Bolt”. Aveva ragione. Per almeno due motivi: che Bolt stesso non gradisce che il suo sport stia lì, fuori dalla sua porta, a chiedergli qualcosa: magari non tornare, magari soltanto di raccontarsi, di commentare. E a lui non gli va. Come non se l’è mai sentita di impegnarsi come coach. Eppure lo spauracchio continua ad agire, sottotraccia.

C’è bisogno di Bolt in qualunque intervista. Perché così è più semplice ricavarne un titolo. L’ex campione Ato Boldon tre giorni fa ha intervistato Karsten Warholm, una delle stelle della nuova atletica. Ebbene di cosa hanno parlato? Di tante cose. Ma anche di Bolt. Warholm, che pure è destinato a fare la storia dei 400 ostacoli e, contestualmente, di tutta l’atletica moderna, ha precisato: “Non ci sarà più un altro Bolt, quando lui apparve non c’era nessuno con cui confrontarsi, al livello mediatico. In pratica, Bolt ha inventato una tipologia nuova di campione, che nessuno credo sarà in grado di incarnare: vincente sotto una pressione spaventosa. E poi anche perché ognuno è una cosa a sé, unico”. Parole che confermano l’opinione dello stesso giamaicano, quando smise.

Ma perché, verrebbe da chiedersi, è impossibile che Warholm, Duplantis, la Hassan, i nuovi primatisti mondiali del mezzofondo, la triplista Rojas, non possono aspirare a diventare dei modelli di riferimento? Un po’ perché la velocità ha una trazione mediatica più forte, con o senza Bolt, delle altre pur meravigliose discipline, e un po’ perché l’atletica, come ogni sport, sta vivendo tempi difficili. Più che di Bolt, avrebbe bisogno di calore, di veder tornare la gente sugli spalti, avrebbe bisogno di “oooooh” dopo un salto, di applausi non fasulli, di sapere con certezza che a Tokyo, il prossimo anno, si gareggerà: e questa certezza non c’è affatto. In un momento di distacco emotivo, provocato dall’emergenza sanitaria golbale, se anche emergesse un Bolt nessuno lo accoglierebbe con la dovuta risonanza, perché ha altro da pensare, perché le preoccupazioni lo portano altrove.

Però la memoria rimane. E i record, magari fra qualche anno, così come i loro artefici, torneranno in auge, conquisteranno il posto che meritano nel cuore della gente ritrovata, forse appassionata più di prima. Quando torneremo a essere un po’ più felici di come siamo oggi, ci ricorderemo magari che c’è stato un 27enne tedesco, Johannes Vetter, che ha lanciato il suo giavellotto a quasi cento metri (97,76), riaprendo il dibattito su come arginare, attraverso la tecnologia dell’attrezzo, la potenza di questi atleti in un campo delimitato come può essere uno stadio. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Hollywood continuò a produrre film: erano piccole produzioni allestite con pochi quattrini e molti fondali finti, senza grandi pretese artistiche e senza troppa vanteria. Fra questi c’era “Casablanca”. Anni dopo, quando tornò il sole sulla terra, ci si rese conto che con due soldi di speranza avevano ralizzato un capolavoro. Magari Warholm farà il record del mondo del 400 hs (che ancora appartiene all’americano Kevin Young che lo stabilì ai Giochi di Barcellona nel ’92 ed è uno dei più vecchi primati maschili su pista), e magari solo fra un paio d’anni scopriremo, tutti insieme, la sua grandezza. E lasciamo in pace Padre Bolt, a giocare con sua figlia Olympia.

Fonte www.repubblica.it

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