SINTRA – La festa del Bayern per la sua sesta Coppa dei Campioni è la celebrazione di un’abitudine un po’ perduta, perché sono passati 7 anni dall’ultima volta. Ma le abitudini non si dimenticano e così riecco i campioni di Germania Bayern in cima all’Europa, come racconta l’ambasciatore mondiale del club dal 2017. Elber de Souza detto Giovàne Elber (con l’accento sulla a), brasiliano, 48 anni, protagonista del ciclo del Bayern dal 1997 al 2003, una Champions l’aveva già vinta sul campo a Milano (lui che fu del Milan per 3 stagioni, dal 1991). A San Siro era il 2001 e il sapore di quella vittoria contro il Valencia è tornato 19 anni dopo a Lisbona.
Elber, perché il Bayern prima o poi torna sempre sul tetto d’Europa?
“La Champions è la più difficile delle competizioni. Serve anche un po’ di fortuna, per vincerla. Non basta essere forti”.
11 partite 11 vittorie, 43 gol fatti: sembra che la fortuna c’entri poco, sembra piuttosto una nuova frontiera tattica.
“Beh, in effetti penso che questo si possa dire. Abbiamo certamente espresso un modo di giocare molto moderno. Prima, più o meno dichiaratamente, si stava più in difesa e si pensava innanzitutto a evitare di prendere gol”.
E’ una rivoluzione tattica?
“Anche il Psg aveva la stessa mentalità. La nostra partita simbolo è stata quella col Barcellona. La squadra continuava ad avanzare, i terzini attaccavano anche contemporaneamente. Poi una rosa così ricca, come si è visto con Coman, fa il resto”.
Quanto c’è in questa vittoria di un allenatore poco famoso finora?
“Flick ha gestito i giocatori alla perfezione e questa Final Four è stata perfetta fin dal primo giorno nel ritiro di Sintra: un po’ in montagna, anche se non troppo lontano da Lisbona. Non è che con Nico Kovac la squadra non vincesse in Champions, ma in campionato non andavamo così bene. Hansi ha avuto il grande merito di fare sentire di nuovo centrali campioni come Müller e Goretzka: ha lavorato tanti anni con la Nazionale accanto a Löw, è un gestore perfetto dello spogliatoio. Ma è anche un tattico raffinato”.
Da brasiliano: è una leggenda o è verità che i tedeschi vincano anche grazie alla disciplina?
“Io posso parlare del Bayern. Dare a tutti la possibilità di dimostrare che meritano di giocare significa dare a tutti il senso del gruppo. Uno come Coutinho, che è un talento vero, non è partito titolare, ma ha accettato la panchina senza fiatare. Noi sapevamo che voleva giocare dall’inizio, ma lui sa che è giusto accettare le decisioni dell’allenatore”.
Altro dato innegabile: il Bayern molto tedesco, anche con molti giocatori arrivati a parametro zero, è un modello di mercato più oculato delle spese folli.
“Di sicuro lo scouting funziona benissimo e lo dimostra il caso di Davies. Ricordo quando c’era la preparazione negli Usa e io vidi spuntare questo ragazzino canadese, che non conoscevo. Anche il recupero di Gnabry, dopo la sua parentesi inglese, è stato un capolavoro”.
Davies è la vera sorpresa della Final Eight?
“E’ la sintesi dell’evoluzione del ruolo del terzino e più in generale del calcio contemporaneo. Non si ferma mai. Deve ancora imparare tantissimo, data l’età, ma è uno che impara subito. Credo che la più bella spiegazione della novità che rappresenta siano i complimenti di Marcelo, che di terzini si intende di sicuro. Gli ha scritto che è un piacere vederlo giocare: ha espresso il pensiero di tutti”.
E’ stata la Champions degli allenatori tedeschi, tre in semifinale su tre della Final Eight e due in finale: che cos’ha oggi in più il calcio targato Germania?
“Credo innanzitutto uno straordinario senso di appartenenza. Io posso riferirmi al Bayern e la mia storia è decisamente emblematica. Quando mi hanno chiamato per lavorare con loro, io stavo sulla spiaggia in Brasile. Mi scervellavo: ma perché hanno pensato proprio a me? La risposta l’ho trovata tornando a Monaco di Baviera. Il Bayern non dimentica le sue risorse”.
Nessun club europeo, in effetti, pesca la sua dirigenza dagli ex campioni: oggi, dopo il ciclo di Rummenigge e Hoeness, sta per arrivare quello di Kahn.
“Quando Rummenigge ha pensato che fosse arrivato il momento di smettere di fare il presidente del club, per lui è stato naturale iniziare a preparare la successione. Così ha chiamato Oliver e gli ha detto: vieni a provare, respira l’ambiente, vedi se ti piace. Lui è venuto a imparare, gli è piaciuto, si è dimostrato capace e nel 2021 sarà il presidente”.
Ancora da brasiliano: perché non è stata la Champions di Neymar?
“Neymar non ha vinto, ma noi brasiliani siamo rimasti impressionati dalla sua maturazione. Quando lasciò il Barcellona, disse che voleva diventare il numero uno e noi pensavamo che fosse un errore, che andarsene dalla squadra di Messi per spostarsi a Parigi fosse sbagliato per lui. Invece ha trascinato il Psg in una dimensione diversa. Finora ci aspettavamo di più con la Seleçao, ma la sua dimensione di fuoriclasse è chiara e servirà”.
La formula della Final Eight ha favorito il Bayern?
“I valori sono stati rispettati. Non è per come è finita che a me questa formula è piaciuta tantissimo. Devi essere al 100% in ogni partita, è emozionante. Al di là delle questioni di diritti tv e sponsor, in generale io posso dire che rifarei la Champions così”.
Perché il calcio italiano ci è arrivato soltanto con l’Atalanta?
“Per la ragione che dicevo all’inizio. In Champions conta anche la fortuna: la Juventus, col Lione negli ottavi, è uscita per un soffio. Il calcio italiano non è inferiore. Anche le squadre spagnole e inglesi stavolta non sono entrate in semifinale”.
Lo dice con gratitudine per il suo passato?
“No, lo dico con obiettività. Certo, io all’Italia devo quasi tutto. Ogni mattina, quando mi sveglio, ringrazio il Milan. Io avevo cominciato giocando a calcetto nel mio paese, Londrina, al sud del Brasile. Poi sono stato notato dagli osservatori del Milan a un torneo Under 20 e 6 mesi dopo ero a Milanello, con Van basten e Maldini”.
Anno 1991, c’era il limite dei 3 stranieri per squadra.
“E il Milan aveva il massimo, da questo punto di vista. Ariedo Braida, il ds che mi disse subito di considerarlo un secondo papà, il mio papà italiano, mi prestò al Grasshoppers, in Svizzera, e non mi cedeva mai a titolo definitivo, perché credeva nelle mie qualità: facevo la preparazione col Milan e poi andavo in prestito a Zurigo. Solo che al terzo anno ho deciso che avevo imparato abbastanza e che la Svizzera mi stava stretto. Allo Stoccarda c’era Dunga, il mio connazionale che aveva giocato nel Pisa, nella Fiorentina e nel Pescara e che sarebbe stato poi ct della Seleçao. Carlos mi disse. Sei bravo e sai il tedesco, perché non vieni qui? Da lì sono passato al Bayern ed è iniziato il boom”.
Nel frattempo il Milan è sceso dal piedistallo: non gioca in Champions dal 2014.
“Per una società come il Milan è decisamente troppo e lo è anche per me. Aspetto sempre che torni al suo livello, anche per il bene del calcio italiano”.
Fonte www.repubblica.it