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Gli stadi restano chiusi. Figc, la nuova battaglia è sui tamponi

Gli stadi italiani ancora chiusi fino a dicembre. Sul treno che portava la Nazionale a Venezia, da dove oggi decollerà per l’aeroporto di Amsterdam Schiphol, era questo ieri il timore sussurrato dalla squadra: altri due mesi e mezzo di partite di campionato a porte chiuse, con la potenziale riapertura (sempre parziale) soltanto a dicembre e con gli azzurri costretti a giocare senza spettatori fino alla fine del loro 2020. Sono quattro le partite in casa in programma per l’Italia di Mancini da qui a fine anno: a ottobre l’amichevole di Parma con la Moldova e la gara di Nations League a Milano con l’Olanda, a novembre l’altra amichevole di Benevento con l’Estonia e l’altro impegno di Nations League a Roma con la Polonia. Che gli stadi vuoti siano particolarmente malinconici e di ostacolo per le Nazionali, squadre spinte per natura alla simbiosi col pubblico, lo hanno ribadito Bonucci e Mancini, dopo avere cantato a squarciagola l’inno di Mameli alle poltroncine del Franchi prima di Italia-Bosnia. Ma anche Van de Beek e Lodeweges, sostituto ad interim di Ronald Koeman neoallenatore del Barcellona, si sono lamentati dell’Amsterdam ArenA deserta per Olanda-Polonia. E’ l’unica cosa su cui sono chiaramente d’accordo ct e calciatori delle duellanti, domani sera ad Amsterdam, per il primato nel girone A della Nations League con formazioni rinnovate: sia rispetto all’1-1 degli azzurri con la Bosnia (Immobile sostituirà Belotti, Chiellini tornerà dopo la panchina per errore, Jorginho sarà di nuovo regista, Zaniolo si candida a un posto tra gli 11) sia rispetto all’1-0 degli orange con la Polonia (Van de Beek reclama spazio). Italiani e olandesi concordano sulla malinconia. Solo che la speranza di rivedere gli spettatori a San Siro tra un mese, per la sfida di ritorno del 14 ottobre, è al momento decisamente flebile e non è ancora escluso che la partita possa essere spostata a Firenze.

Priorità alla scuola

Il timore prevalente resta il prolungamento della fase a porte chiuse. La riapertura degli stadi non è la priorità. Passerà almeno un altro mese prima che qualcuno dica se i tifosi potranno tornare. Per questo la Federcalcio ha momentaneamente abbandonato il campo, concentrandosi sulla battaglia dei tamponi, l’ultima frontiera dello scontro politico tra calcio e scienza. Due settimane passeranno prima che il Comitato tecnico scientifico torni a occuparsi dell’argomento stadi. Poi ne impiegherà almeno altre due prima di dare un parere definitivo. Insomma, il ripopolamento degli impianti – e non solo di quelli di Serie A – va avanti piano. Con un occhio particolare alla scuola: questo mese, infatti, servirà al Comitato tecnico scientifico per raggiungere un obiettivo considerato prioritario: capire che cosa succederà alla traiettoria dei contagi quando il Paese si rimetterà in moto davvero, con i bambini che faranno quotidianamente il tragitto casa-classe e ritorno. Nel frattempo qualunque altra decisione sembra destinata a restare in sospeso. Anche il piano della Regione Piemonte e della Juventus, che aveva come obiettivo quello di riportare, gradualmente e in sicurezza, circa 8 mila tifosi allo Stadium. “O una regola vale per tutti o non vale per nessuno” è la linea del governo, anche perché il prossimo dpcm, in linea con l’ultimo, non ammetterà partecipazione del pubblico se non per eventi singoli (e un campionato chiaramente non lo è) su tutto il territorio.

La battaglia dei tamponi

Tra le posizioni di critica allo stallo e all’eventualità della riapertura parziale c’è quella degli ultras organizzati, sintetizzata dal comunicato degli Ultras Tito della Sampdoria: “Abbiamo sempre considerato il tifo e la partecipazione un elemento essenziale del calcio. Siamo certi che di questo parlano tanti protagonisti, a cominciare da Mancini, quando dicono che “senza pubblico non è calcio”. E allora lo diciamo chiaro. Io dentro, tu fuori non è pubblico. Non parteciperemo a questo esperimento, non aderiamo a guerre fratricide per accaparrarsi il 20% dei biglietti. O tutti dentro o nessuno”. L’ipotesi, in futuro, è di iniziare la sperimentazione dalle categorie inferiori. Anche per questo la Figc ha “congelato” questa battaglia. Concentrandosi su un’altra che è attualmente più urgente per società e calciatori: i tamponi. L’obiettivo è dimezzare il numero di test molecolari cui sottoporre giocatori e staff. Il protocollo con uno ogni 4 giorni era infatti tarato su un calendario in cui si giocava ogni 3 giorni. Oggi la Serie A ha tempi più comodi (e le partite europee sono soggette al protocollo Uefa): per questo la Figc chiede di dilatare i tempi tra un tampone e l’altro fino a 8 giorni, con un test sierologico a metà strada. La tesi è che in fondo 4 giorni sono il tempo di incubazione del virus. E’ una posizione condivisa anche dal ministro dello sport Spadafora: è la chiave per fare ripartire il campionato in tranquillità, dal punto di vista dei giocatori ma anche e soprattutto delle società. Però il Cts fa muro, continuando a imporre il vecchio protocollo, nonostante sia stato lo stesso Cts a definire “un accanimento” il tampone ogni 7 giorni. Figurarsi ogni 4, rileva la Figc. E’ la battaglia di queste ore.

Fonte www.repubblica.it

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