Mario Balotelli compie oggi trent’anni. Sì, d’accordo. Ma di chi è la colpa? Qualcuno dovrà pur prendersi questa responsabilità. Nello stesso giorno, celebrano il loro anniversario le sue paure, sparse nel mondo a centinaia, senza volto e per questo sempre minacciose. Nello stesso giorno festeggia il trentennale la sua fragilità: quell’insicurezza di fondo che abbiamo imparato a individuare in un rosario di burbere manifestazioni di vitalità, antagonista, controcorrente, quando non inspiegabile. E spengono trenta candeline le sue infinite occasioni perse, quel sentirsi sempre un po’ incompreso e sempre un po’ fuori posto, quell’avere tutto in mano soltanto per il piacere di sputtanarlo con insolente arroganza, come se non ci fosse un domani.
Mario è un’eccellenza del calcio italiano, che se lo può permettere perché tanto non c’è alternativa. O forse era un’eccellenza. Per anni Balotelli ha illuso. Gli altri e forse anche se stesso. I prossimi trent’anni è presumibile che decida di trascorrerli in un luogo più protetto, dove non sia costantemente chiamato a dar ragione del proprio talento (di solito si usa l’aggettivo “smisurato”) o a giustificare i propri stati d’animo (mai in linea con ciò che ha intorno). Balotelli potrebbe aver chiuso con il licenziamento del Brescia. Farsi mandare al diavolo nel campo di casa, vedersi chiudere le porta della propria stanza dei giochi, sono un must che pochi possono vantare nel proprio palmarès. Bisogna avere una forte motivazione per raggiungere simili traguardi. E Balotelli, col suo “smisurato” talento rimasto lettera morta, a quanto pare c’è riuscito senza neppure faticare.
La costante della sua vita pubblica è stata sempre fortemente rappresentata da questo verbo: faticare. O meglio: dalla sua assenza. Forse mai ha cercato di rispondere a questa domanda: cosa serve per esprimersi? Applicarsi. Quindi faticare. Balotelli non ha mai digerito questo paragrafo del regolamento dello sport e della vita. Se nulla è dato al caso, nulla ti viene regalato. Messi e Ronaldo si sono impegnati per diventare ciò che sono. Bolt non ha mai saltato un allenamento. A 41 anni Valentino Rossi sopporta il sudore dentro il casco e la forza centrifuga in curva perché ama ancora quello che fa. Balotelli no: era convinto che il solo saper toccare un pallone lo ponesse al riparo dagli aspetti più sgraditi, tenendolo lontano dagli scalini più duri. Ma non funziona così. Balotelli ha sperimentato solo una parte delle cose della vita e solo un pezzo di pallone ha conosciuto. La parte scomoda l’ha semplicemente scansata, con sdegno. Appena qualcuno lo richiamava ad un più composto rigore, lui si defilava, invocando il diritto ad essere lasciato in pace.
Ogni sua svolta ha coinciso con una scenata. Ogni notizia nascondeva un presupposto doloroso, come il calcio rimediato da Totti. Ha cercato di comporre il mosaico della propria vita. Questo gli va riconosciuto. E forse ha persino raccolto tutte le tessere. Ma il disegno che ne risultava, cangiante, non aveva mai un senso compiuto. Intanto il calcio è andato avanti: senza di lui. Ha scoperto nuovi campioni, ognuno dei quali dava l’esempio: “Tutto può essere allenato e sviluppato, persino il talento!”. Ma bisogna crederci, sudare e sudando emozionarsi. Balotelli no: l’unica forma di continuità l’ha mostrata nella mancanza di continuità. E non ha mai, veramente mai, dato l’impressione di essere felice, di essere contento, di godere di ciò che faceva. La sua incidenza nel destino delle squadre per cui ha giocato, quasi tutte importanti, Inter, City, Milan, Liverpool, Nizza, Marsiglia, Brescia, è stata minima: più coincidenza che incidenza. Non c’è un solo periodo che vien voglia di isolare, in questi suoi anni spezzati, buttati, vissuti male, di corsa e insieme pigramente. E sempre con muso lungo così, sempre pronto ad appesantire una rete mediante significati non tanto profondi quanto esagerati, come se avesse deciso di trasformare la sua vita in una sequenza di vendette private: “Ora ti faccio vedere io!”.
Una sola partita negli archivi: la semifinale europea contro la Germania nel 2012. Di fatto, non ha mai avuto voglia di diventare adulto, nonostante sia diventato padre. Con una punta di imbarazzo ma anche con una più ampia possibilità di documentazione, di Mario si ricordano meglio le “balotellate”. Mentre le “cassanate” erano la conseguenza mimica di un folclore culturale (le corna a Rosetti), le “balotellate” possedevano sempre un fondo oscuro, evidenziavano un guasto antico e torbido, originato chissà dove nella sua infanzia, non peggiore di altre tuttavia: come le freccette lanciate ai ragazzi del City, dalla finestra del proprio alloggio, o gli spari a salve per le vie di Milano, “per noia”. Si uccide per noia, come in certi film esistenzialisti, si uccide alla Camus. Balotelli, con tutte le sue uscite, ha probabilmente ucciso il calciatore che era in lui. Cacciato da Brescia, avrebbe voglia di accasarsi a Como. Ma qualunque verità si celi dietro quest’assurdo progetto, l’ultima spiaggia, di lago, è piena di sterpi, catrame e brutti presagi. E dovunque vada, se non cresce, Balotelli porterà per sempre con sé la tetra natura che gli abita dentro. Un lusso e una maledizione. Forse la festa è davvero finita, come i sogni che l’avevano annunciata. Forse è finita anche la penna per scrivere questa mesta sceneggiatura, senza alcuna garanzia che ne venga fuori un film. Ma se il calcio l’ha perso, che almeno lui non perda se stesso. Questo sì.
Fonte www.repubblica.it