Giocando al suono del silenzio le cose cambiano, cambia tutto. Il calcio a porte chiuse è uno sport diverso, lo dimostrano i risultati pazzi delle partite di Champions, l’8-2 del Bayern sul Barcellona, i due turni superati dall’outsider Lione nei confronti di Juve e Manchester City. «Nulla di tutto ciò mi sorprende» spiega Antonio De Lucia, presidente della Società italiana di Psicologia dello Sport (SIPsiS), «le porte chiuse condizionano come e più del pubblico».
In che modo?
«La condizione psicologica è nuova e completamente diversa rispetto a quel che un calciatore è abituato a vivere. In genere nel calcio si gioca in casa o in trasferta, in condizioni sedimentate e tradizionali: in casa sai di avere il pubblico a favore, in trasferta contro. Hai dei riferimenti precisi, anche visivi».
A porte chiuse invece viene meno tutto ciò.
«I giocatori sono abitudinari, hanno la propria curva, conoscono i toni del proprio tifo, riconoscerebbero a occhi chiusi, dal vociare, dal crescere della tensione intorno, le dinamiche e i momenti di una partita. Nel silenzio invece si trovano a dover riconsiderare lo spazio intorno. La freddezza dell’ambiente li costringe a un surplus di concentrazione su quello che noi chiamiamo “orientamento verso l’interno”, verso se stessi, su temi come autostima, consapevolezza di sé, sicurezza nei propri mezzi».
Perdono, cioè, le squadre meno, collettivamente, consapevoli di loro stesse?
«Perdono, più spesso che nel calcio pre-Covid, le squadre che più di altre soffrono la mancanza di normalità intorno, della solita routine. In ogni caso, la mancanza di pubblico, quindi di stimoli esterni, tende a livellare la condizione mentale delle squadre, ad avvicinarne i valori complessivi. Nel caso di Bayern-Barcellona, le differenze tra valori si sono invece allargate a dismisura perché ai catalani è venuta a mancare quella sorta di ancora di salvezza che è il tifo, nei momenti difficili. Anche quello contro può esserlo, per certi versi. Il silenzio è invece una condizione tombale, per chi è in difficoltà».
Il calcio e gli sport di squadra risentono maggiormente rispetto agli sport individuali della condizione del giocare a porte chiuse?
«Non ci sono differenze sostanziali, la psicologia di gruppo o quella individuale risentono allo stesso modo di quella sorta di privazione sensoriale che è l’assenza di consenso o dissenso».
Sui giovani calciatori come incide l’assenza di pubblico?
«Rispetto ai meno giovani il vuoto intorno li aiuta in quanto loro sono più “vergini” ai grandi palcoscenici, meno abituati ai grandi teatri e alle reazioni del pubblico. In questo modo è meno forte il trapasso dai campionati giovanili, tradizionalmente giocati con pochi tifosi. Perde peso uno dei condizionamenti peggiori, cioè la paura della reazione del pubblico ad un errore. Per loro è, paradossalmente, quasi un bene».
Si può “allenare” la psiche al silenzio di uno stadio vuoto?
«Sì, ed è un consiglio per le società, anche in vista della ripresa del campionato, che potrebbe avvenire ancora a porte chiuse: aiutiamo i calciatori a focalizzarsi sulle proprie “situazioni” interne e ad evitare di cercare l’approvazione o la disapprovazione del pubblico. È un gioco allo specchio, qualcosa di totalmente nuovo».
Fonte www.repubblica.it