Il calcio che torna ha qualcosa di così triste che non basta a spiegarlo tutto quello che stiamo vivendo, tutta la paura che abbiamo del nostro futuro. Non poteva scegliere un esempio peggiore di Juve Milan, una partita talmente brutta da farci capire che cosa sarebbe il nostro campionato senza gli stadi pieni, la gioia dei tifosi e i riti frastornanti della folla, senza quell’immenso e sregolato caravanserraglio di sentimenti e di emozioni che gli danno un senso. Sarebbe questa cosa qui, proprio come lo zero a zero finale, il risultato perfetto che ne rispecchia fedelmente la nullità, la lontananza da qualsiasi espressione di festa, ma anche di dolore. Un monumento dell’assenza. Dove manca tutto, mancano i vincitori e i vinti, manca la voglia di divertirsi, il significato di quello che dovrebbe essere uno spettacolo, – se no a che servono tutti i soldi che girano -, mancano i tifosi e manca persino una logica. Uno dovrebbe spiegare al vulgo come fa una squadra piena zeppa di campioni, strapagati pure, da Ronaldo a De Light a Dybala e gli altri, a non esprimere mai uno sfoggio di bellezza, il senso di un gioco e del coraggio, qualcosa che sia rapportabile allo sport e non alla linea di un tram che va e poi ritorna alla fermata. Dall’altra parte, invece, ci riesce difficile capire il Milan, che si indentifica perfettamente con la pochezza del suo allenatore e viene a Torino dovendo fare un gol per andare in finale e si rintana dietro con l’unica intenzione di non subirne, preferendo stare a guardare il ticchitacca noiosissimo e inconcludente degli avversari piuttosto che giocarsela. E non c’entra niente che buona parte della partita l’abbian fatta in dieci, perché è stato peggio quando erano in 11 e l’unica punta, Rebic, s’è fatto espellere mentre cercava semplicemente di fare il difensore – senza esserne capace – che deve spazzare via tutto, il prato, l’aria, l’avversario. Anche il pallone, se capita.
La partita in sé non merita altre parole. Alla fine l’unica cosa di cui si deve parlare è la sua assenza, perché è l’unica cosa che abbiamo visto. Nel teatro spettrale abbandonato dagli dei si sentivano solo le grida feroci di Donnaruma e il rumore sordo dei calci sul pallone, ma erano sprechi di voci e di colpi che riempivano il vuoto della notte come i rintocchi dell’orologio in una casa senza nessuno. La quarantena è rimasta qui, in questo angolo lunare della città, con lo stadio posato come una gigantesca astronave sul reticolo di vie e strade bloccate dalla polizia già due ore prima della partita. Sotto alle frastaglie di nuvole in cielo e alle sue promesse di pioggia, non c’è niente. Nei grandi parcheggi attorno agli ingressi, dove quando ci sono le partite non si trova un buco libero, ci sono un Maggiolino nero, una Opel grigia e una Vespa verde. Non ci sono i furgoni delle tv con le loro antenne sui tettucci, non ci sono i banchetti che vendono le bandiere e le sciarpe, i camioncini con i panini di salame e formaggio, persino le strade sono pulite, non ci sono nemmeno cartacce che svolazzano. Possono passare solo i giornalisti con il tesserino. Dieci giornalisti e dieci fotografi. Il resto è vietato. I ragazzi della Primavera arrivano a piedi, perché devono fare i raccattapalle. Un solo striscione all’esterno, bianco con su scritto «Km d’amore». Quando arrivano i due pullman del Milan sono accompagnati dall’urlo delle sirene che squarcia questo silenzio lunare. Quello della Juve non ha scorta. C’è un piccolo gruppo di tifosi, saranno una decina al massimo, tutti perfettamente distanziati fra di loro, che applaudono al passaggio.
Dentro dicono che ci siano 300 persone. Ma sembrano molto meno. Sugli spalti sono tutti con le mascherine, separati fra di loro di qualche metro. I dirigenti della Juve sono quattro, Paratici sopra, da solo, che passa più tempo ad armeggiare al cellulare che a guardare la partita (ma non è che ci sia molto da vedere), e poi sotto Andrea Agnelli e Nedved, distanziati da due seggioline. Più in disparte, di lato, Cherubini. Del Milan ci sono Gazidis e Maldini. Theo Hernandez, squalificato, è seduto lì vicino. Anche l’ingresso dei protagonisti in campo avviene in maniera separata. Prima la quaterna arbitrale. Poi il Milan. E infine la Juve. Dopo, si dispongono tutti insieme in cerchio, per il minuto di silenzio. La musica c’è. Ma è più bassa del solito. Fuori, la senti appena. Non è come prima, che il suo eco ti investiva subito, mentre arrivavi. La partita comincia in questa atmosfera così lontana dalla realtà. Le urla strozzate, i fischi dell’arbitro, i colpi al pallone. Ogni tanto, anche i giocatori in campo fanno come uno qualsiasi di noi. Alzano gli occhi sugli spalti. E guardano sconsolati quello che hanno di fronte. L’assenza.