Non poteva andare meglio di così. Un primo set vinto, giocando alla grande. Poi una bella “stesa”, una sconfitta netta sul piano del punteggio e del gioco.
No, non siamo impazziti e non siamo contenti che Jannik Sinner ieri abbia perso contro Daniil Medvedev, n.5 del mondo. Però se osserviamo con un minimo di attenzioni i fatti (e la partita) e sfuggiamo dal giochino dei titoli del girono dopo (“Sinner illude poi è travolto”, “Sinner sogna poi va ko”, “Sinner si arrende…”, “Sinner si llude…”) non è difficile rendersi conto dell’enorme regalo che Daniil Medvedev ha fatto all’azzurrino di 18 anni e mezzo travolgendolo per due set dopo esserne stato travolto all’inizio.
Se si è convinti non solo a parole che Jannik Sinner è un grande talento in divenire, uno che punta davvero ai massimi livelli del tennis mondiale, il discorso che ha fatto alla fine della stagione scorsa il suo coach Riccardo Piatti è un punto di riferimento chiaro: l’obbiettivo per il 2020 è giocare tante partite (lui ha detto 60) al livello del circuito maggiore, l’Atp Tour. Il motivo è che serve esperienza. Davvero, non a parole. Perché fino a quando uno non prova che cosa vuol dire giocare contro Djokovic, Federer, Nadal e soci, in torneo e non in allenamento, non sa che cosa vuol dire. Non è in grado di capire davvero che livello di gioco bisogna essere in grado di esprimere per misurarsi con quelli che competono per i grandi titoli del tennis. E batterli. Ci ricordiamo tutti che cosa è successo a Matteo Berrettini a Wimbledon lo scorso anno contro Roger Federer: a fine partita gli ha chiesto quanto gli doveva per la lezione….
Ma il problema dell’esperienza ad alto livello è tale che anche uno come Dominc Thiem, quando arriva per la prima volta in finale al Roland Garros contro Rafael Nadal (non stiamo quindi parlando di primi passi nel circuito) nel 2018, non ha idea dell’intensità che un campione così è in grado di esprimere quando affronta una finale Slam. Finire travolti è un attimo. Gli sarebbe andata meglio l’anno dopo, quando quella prima idea se l’era, dolorosamente fatta. Era più pronto: ha perso in quattro set anziché in tre. Come dice Samuel Beckett, tatuato sul braccio di Stan Wawrinka: ho sempre provato. Ho sempre fallito. Non importa. Proverò ancora. Fallirò ancora. Fallirò meglio.
Tornando alla partita di ieri al torneo di Marsiglia tra Jannik Sinner e Daniel Medvedev, qual è dunque il regalo del russo cui accennavamo? Quello di aver acceso a un certo punto la modalità “finale degli Us Open”. E il merito è anche di Jannik. La sua partenza a razzo, il suo tennis aggressivo, potente, a ritmo altissimo hanno messo in difficoltà seria il giovane russo, vero grande emergente del tennis mondiale nel 2019, anno in cui ha battuto Djokovic in semifinale a Cincinnati e spremuto Nadal fino a un drammatico quinto set in finale nello Slam newyorkese.
Al punto che, nel balbettante inizio del secondo set, il moscovita dall’aria sempre spettinata di uno che si è appena alzato dal letto, ha tirato fuori tutto quello che aveva, riaccendendo quella modalità di tennis strepitosa che gli permette di giocare alla pari (o di battere) con i più forti del mondo nelle partite che contano davvero.
Ma quando ti ricapita di sperimentare quel livello di tennis prima di arrivare a giocare davvero una semifinale di Masters 1000 o una finale Slam? E’ un regalo che ti fanno se succede nei quarti di finale di un Atp 250 qualsiasi.
Che poi non faccia piacere sentirsi improvvisamente nudo, con le armi spuntate, di fronte a un muro che non si riesce a sfondare, non si sa ancora scavalcare e ci spinge a sbagliare, è normale.
Non è piacevole, in quel momento, rendersi contro che per sfondare quel muro non basta il tuo bel tennis di oggi. Anzi: pur picchiando forte, fai fatica a conquistare anche un solo ‘quindici’.
Però è un regalo prezioso: il punto di riferimento che serve per tornare il campo a lavorare con le idee molto più chiare. E’ uno di quei problemi che Riccardo Piatti sa che si devono creare sulla strada di Jannik. Per diventare n.1 bisogna imparare a risolverli uno alla volta. Prima si comincia a conoscerli, meglio è.
Serve più continuità con la ‘prima’ di servizio? Serve una “seconda” più incisiva e variata? Servono un miglior dosaggio della spinta e geometrie/variazioni di rotazione più strategiche nel disegno degli schemi da fondocampo? Servono volée più sicure? Bisogna migliorare il tocco nei recuperi sotto rete? Servono muscoli e sangue freddo. Servono un sacco di cose, una alla volta. Servono anni.
Sinner oggi non ci deve illudere. Né pensiamo si illuda, perché ha vicino persone che la realtà del grande tennis la conoscono meglio di chiunque altro.
L’unica illusione che lo deve accompagnare sempre è quella che Toni Nadal, lo zio di Rafa, ha sempre detto essere il faro del nipote: ‘illusion’ nell’accezione spagnola di sogno, desiderio, fantasia positiva, convinzione interiore di voler provare fino in fondo a raggiungere i traguardi che uno si immagina sin da piccolo. Dove è arrivato Nadal l’abbiamo visto tutti. Medvedev a New York l’ha praticamente raggiunto.
La mappa del tesoro per Jannik si è aggiornata a Marsiglia.