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Libri, arte e calcio. Il mondo tranquillo di Aldo Serena: “I giocatori oggi si sentono fighi, ma è tutto finto”

Aldo Serena ha 60 anni. Da dieci è tornato a vivere nella campagna sopra a Montebelluna in provincia di Treviso, dov’è nato. Un’esistenza tranquilla, interrotta dalle trasferte per gli impegni come telecronista, che gli consente di seguire le sue passioni. La lettura, l’arte e ovviamente il calcio. “Mi aspetto un bel campionato, combattuto”, dice.

Alla fine chi la spunterà?
“Immagino una lotta a tre fra Juve, Inter e Napoli. Stimo moltissimo Gattuso, sta facendo solo cose giuste”.

Come giudica il mercato fatto finora da Milan, Inter e Juve, squadre con cui ha giocato e vinto lo scudetto?
“Inter e Juve, pur con limiti economici, sono entrambe bene attrezzate. Penso che il vero botto di questa sessione sarà l’attaccante bianconero. Per il resto, apprezzo Hakimi e Kulusevski, entrambi destinati a diventare molto forti. Quanto al Milan, sta facendo quello che serve per tornare al suo livello, e giocare già dall’anno prossimo la Champions League”.
Pirlo ha vinto due Champions col Milan. Pioli, interista dichiarato, è passato dalla panchina nerazzurra. Antonio Conte è una bandiera della Juventus. Cosa sta succedendo?
“Ormai è definitivamente sdoganato il tifo. L’iper-professionismo, che viene dall’Nba e in generale dagli sport americani, lascia poco spazio ai sentimenti. I giocatori e gli allenatori oggi sono multinazionali, ogni calciatore è un brand, alcuni di loro sui social network hanno più follower dei club in cui giocano”.
Che sensazioni ha avuto un interista come lei a giocare nel Milan e alla Juve?
“All’inizio, non ero contento. Fosse stato per me, sarei rimasto sempre all’Inter, ma mi davano continuamente in prestito. Ho giocato un derby con addosso la maglia del Milan, e dopo venti  giorni ero di nuovo in ritiro con i nerazzurri. Sono sceso in campo col Toro contro la Juve, e dopo tre settimane sono passato in bianconero. Arrivai a pensare che fosse il mio destino e lo accettai”.
Ovunque, i tifosi dei club in cui ha giocato le hanno voluto bene.
“Quasi ovunque, direi. Al Toro, purtroppo, a un grande amore è seguita anche tanta rabbia. Non mi hanno mai perdonato il passaggio alla Juventus. Ancora qualche anno fa ero allo stadio Olimpico di Torino per una telecronaca e ho dovuto correre per evitare un paio di torinisti a cui non era ancora passata”.
Cosa le ha insegnato questo peregrinare?
“Ho imparato a chiudere porte e subito aprirne altre. A finire una storia e cominciarne immediatamente una nuova. Non è facile, ma per me è stato necessario. A ogni passaggio ho perso tanto: amicizie, abitudini, luoghi divenuti cari e subito abbandonati. A Della mia carriera ho scelto pochissimo, ma rifarei tutto. Alla fine sono contento. Ho conosciuto mondi, persone, modi di lavorare”.
Aveva un procuratore?
“Mai avuto. Ho sempre trattato personalmente i trasferimenti. Così facendo, ho sicuramente perso soldi. Ma ci tenevo a relazionarmi direttamente con presidenti e allenatori. Non volevo essere venduto come una merce, per quel che non ero. Volevo mettere le cose in chiaro: se mi compri, prendi uno che sa stare in mezzo all’area, posso partire anche dall’esterno ma faccio più fatica, soprattutto negli scatti veloci, in ogni caso non mi tirerò mai indietro. Lo ho detto chiaro a Boniperti, Galliani, Pellegrini, Moggi”.
Che tipo è Luciano Moggi?
“Per la mia esperienza posso dire che è una persona attenta, che ti mette a tuo agio. Lo incontrai al Torino. Al tempo facevo il militare a Bologna, avanti e indietro fra campo e caserma. Mi mise a disposizione un’auto con l’autista, che mi veniva a prendere direttamente in Emilia Romagna, o che mi caricava in stazione quando scendevo dal treno in divisa”.
Quali sono stati gli allenatori della sua vita?
“Anzitutto Gianni Rossi, che a Montebelluna mi portò dalle giovanili alla prima squadra in Serie D. Poi Gigi Radice, con cui lavorai all’Inter e che mi chiamò al Torino. Mi ricordava mio padre, per età e carattere: deciso, diretto, allergico ai giri di parole. Poi Trapattoni, che mi volle alla Juventus e mi riportò all’Inter. Un mediatore, un uomo sensibile, uno psicologo naturale. Sapeva provocarti, consolarti, stimolarti in base a necessità. Ho sempre sospettato che fosse consigliato da uno psicologo vero, ma è una mia idea, non gliel’ho mai chiesto”.
Con quale degli allenatori attuali le sarebbe piaciuto lavorare?
“Senza dubbio Jurgen Klopp. È un istrione, un uomo intelligentissimo e affascinante. È imbattibile nell’allentare la tensione, nel prendere le responsabilità su di sé. E il suo gioco è meraviglioso, sempre verticale, allargato agli esterni. In Italia ritrovo tracce del suo approccio nell’Atalanta di Gasperini. Tanto coraggio, pochi passaggi per andare in gol”.
Nell’epoca delle proprietà straniere e delle plusvalenze, i club hanno ancora un’identità propria?
“È molto molto difficile mantenerla, soprattutto nelle grandi realtà. L’ultimo baluardo ormai è il legame fisico con la città, che non va dato per scontato e va difeso. Siamo sicuri che un nuovo proprietario, per necessità di stadio e convenienza logistica, non possa un giorno spostare l’Inter a Udine, la Sampdoria a Lucca o la Spal nel Lazio? Sembra uno scenario apocalittico, ma negli sport statunitensi è successo. La mia speranza è che invece si sviluppi un percorso inverso, di recupero d’identità. L’identità aiuta a vincere e lo dimostrano storie sportive come il Barcellona, costruito attorno a un gruppo di giocatori cresciuti lì, o la Juventus, quasi da sempre in mano alla stessa famiglia”.
Dovesse descrivere con un aggettivo l’anima delle tre grandi squadre del nord in cui ha giocato?
“La Juve, ordinata. Sono arrivato prevenuto e sono andato via con dispiacere. Ho trovato una società snella, magazzinieri che erano lì da quarant’anni, un clima familiare. Il primo Milan, ai tempi della Serie B, confusionario. A Milanello per far cassa Farina organizzava matrimoni, mentre noi giocavamo! Ci allenavamo e intanto suonava l’orchestrina per gli sposi. Il Milan di Berlusconi, invece, strepitoso. Non mi viene in mente un aggettivo migliore. Lo staff medico era andato a formarsi a Chicago dai Bulls, che non avevano mai un infortunio. L’Inter di Trapattoni la definirei moderna. Allenatore, società e calciatori erano connessi, uniti, una cosa sola”.
Quando giocava lei, i bambini seguivano gli allenamenti aggrappati alle recinzioni. Oggi i centri sportivi sono chiusi come sale operatorie. Che ruolo ha il tifoso nel calcio moderno?
“Purtroppo il tifoso è sempre più un consumatore: spendi, compra ma stai distante. Mio zio che abitava a Inverigo mercoledì e giovedì veniva ad Appiano Gentile a trovarmi, bevevamo il caffè, era bello per me e per altri calciatori. Visitavamo gli Inter Club, c’era un rapporto. Oggi i calciatori sono isolati, vivono in una bolla, anche prima del Covid. Anzi, ho l’impressione che molti giovani giocatori trovino gratificante il fatto che i tifosi possano guardarli solo da lontano. Si sentono fighi. Ma è tutto finto. Noi coi tifosi parlavamo, stavamo ad ascoltarli, diventavamo amici”.
A lei cos’ha dato il calcio?
“Mi ha fatto conoscere tantissima gente. Mi ha fatto viaggiare per il mondo, e ha realizzato il mio sogno di bambino. Oggi i ragazzini giocano per i denari e per la fama. Cose che noi avevamo, ci mancherebbe, ma ce ne accorgevamo poco, alcuni di noi non se ne accorgevano per nulla. Oggi non è più così. È tutto più nervoso”.
Di chi è la colpa?
“I genitori degli atleti più giovani spesso fanno disastri, spingendo i figli verso il guadagno, ma senza dare loro basi ed equilibrio. La vera preoccupazione dei miei era che, nonostante il calcio, arrivassi al diploma. Preso quello, mi iscrissi all’Isef. Ma la frequenza era obbligatoria e io ero sempre in giro. Poi, spesso, non avevo testa. Al Como avevo come compagno di stanza Piero Volpi, l’attuale medico sociale dell’Inter e primario in Humanitas. Era bravissimo, studiava sempre. Io riuscivo a stare sui libri solo quando giocavo bene, nei periodi più difficili avevo difficoltà”.
In Serie A, con il dogma della costruzione del gioco palla a terra, si crossa sempre meno. Come si sarebbe trovata in questo calcio, lei che era così forte di testa?
“La costruzione dal basso quando non serve è snervante. Ricordo l’ultima Inter di Spalletti, che ripartiva dal portiere e spesso perdeva palla. Se sei più forte, va bene. Ma se sei più scarso, tanto vale fare un paio di passaggi e metterla in mezzo. Al limite, anche giocare una palla lunga. Ma il calcio va a mode. Ora in Italia sembra che tutti debbano fare la difesa a tre, che poi è quasi sempre a cinque. La difesa a tre la fa davvero solo l’Atalanta, che rischia sempre e difende col campo aperto alle spalle. Ma anche questa moda passerà. Arriverà qualcuno che scompaginerà e si cambierà”.
Fra i centravanti di oggi in chi si rivede?
“Mi riconoscevo in Luca Toni, ma non gioca più. E mentalmente in Mandzukic, che alla Juve si dava completamente, menava, le prendeva, si faceva sentire. Oppure Dzeko, per l’abitudine a fare assist per i compagni. Anche se lui ha una tecnica da 10, io mi fermavo a 7 o 7.5. Oggi comunque gli attaccanti sono più completi di come eravamo noi. Penso a Lautaro, Lukaku, Dybala”.
Il gol a cui è più affezionato?
“Con la maglia dell’Inter, di testa contro il nell”88 – ’89 di testa. Il mercoledì avevamo perso col Bayern Monaco, stampa e tifosi ci criticavano, prevedevano che avremmo avuto il classico calo invernale dell’Inter. Tutti puntavano sul Milan di Sacchi, che peraltro giocava in casa. Ci si aspettava un nostro passo falso, invece no. Fu una vittoria importantissima. L’assist lo fece Bergomi”.
Nicola Berti di assist gliene faceva?
“Lui dice di sì, ma in verità gliene facevo di più io! Diciamo che è grazie a lui se ho conosciuto mia moglie, quello è vero. Ero già grande, eravamo davanti a un bar in zona Garibaldi a Milano. Ma anche quello non può considerarsi un assist. A essere sinceri, più che presentarmela, con lei ci provava anche lui”.
Berti ha fama di festaiolo, lei di morigerato, eppure eravate e siete amicissimi.
“È così. Lui era molto esuberante, io tranquillo. Lui aveva bisogno di qualcuno che lo frenasse un po’, io al contrario cercavo leggerezza. Per me è stato importante conoscerlo e gliene sarò sempre grato”.
Lei legge, ama l’arte, si è sempre interessato di politica. Oggi i calciatori sembrano avere altri gusti. Era una mosca bianca anche da ragazzo, o son cambiati i tempi?
“Sugli spogliatoi di oggi so poco. A occhio direi che i calciatori si dividono molto per nazionalità, o quantomeno per lingua. Ai miei tempi gli stranieri erano pochi e i gruppi molto più omogenei. Con Dossena andavamo a vedere mostre. Klinsmann è intelligentissimo e curioso di tutto. Malgioglio era impegnatissimo nel sociale. Non vivevamo sotto una campana di vetro, eravamo giovani uomini del nostro tempo”.
Oggi lei su Twitter più che di Messi e Ronaldo scrive di attualità. L’assassinio di Willy Monteiro, a cui ha dedicato diversi tweet, l’ha colpita?
“È una storia che mi ha toccato molto. La violenza gratuita mi ha sempre turbato. Il fatto che una persona inerme possa essere violata, fino a essere addirittura uccisa, è un pensiero che mi toglie serenità e mi ferisce. Willy aveva fatto una cosa lodevole e nobile nel difendere il suo compagno. Di solito non lo faccio, ma mi auguro una sanzione forte per i colpevoli”.
Lei è nato a Montebelluna, terra un tempo ricchissima, ma provata dalla crisi economica del 2009, dal crack delle banche venete e ora dal Covid. Si vedono le cicatrici?
“Ma certo. Da dieci anni sono tornato a vivere in collina, sopra il paese. Solo nel crac di Veneto Banca, che aveva qui la sede, gli abitanti di Montebelluna hanno perso 1,6 miliardi. Nel solo Comune! Una vera tragedia. Chi doveva rifare la cucina o cambiare la macchina non l’ha fatto, si sono fermati gli investimenti, l’economia ha tirato il freno a mano. Poi è arrivato il lockdown”.
Però avete una bellissima libreria.
“Alla libreria Zanetti passo molto tempo. Il titolare è vulcanico, un po’ libraio, un po’ editore e anche autore. Ha scritto un libro su Bepi Moro portiere irregolare che ha giocato con la Fiorentina, poi con l’Italia a Wembley. È stato accusato di vendersi le partite ed è finito per allenare una piccolissima squadra locale in cui giocò anche mio padre. Ma libreria a parte, qui le aziende soffrono.  Nei ’70 e ’80 la calzatura sportiva a Montebelluna dava lavoro a tutti. Diadora, Lotto, Nordica, Caber. Restano la Geox e il centro studi Nike, non abbastanza”.
Anche la sua famiglia produceva scarpe.
“Facevamo scarponi da roccia, molto robusti. Avevamo dodici o tredici dipendenti, una piccola fabbrica artigianale. Si chiamava Calzaturificio Monte Bianco, anche se eravamo vicini alle Dolomiti. Il titolare era mio zio, mio padre era direttore. Sono morti entrambi e con loro l’azienda”.
A mai pensato di riaprirla?
“Tante volte. Ma forse sono un po’ vecchio. Fino a quando ho compiuto 18 anni dopo la scuola andavo al campo di allenamento e poi in fabbrica. L’odore del mastice e del cuoio un tempo lo detestavo. Oggi invece mi manca. Ma non saprei più da dove ripartire. Qui nessuno sa più lavorare la gomma e la pelle, solo alcuni anziani. A Montebelluna restano le insegne, i magazzini, e a volte nemmeno quelli. La produzione è in Romania e in oriente, nessuno da queste parti lavora più con le mani”.
I suoi due figli cosa fanno?
“Hanno 12 e 15 anni, studiano. Sto cercando di aiutarli a trovare una passione nello sport, nella montagna, ma è difficile. Hanno fortissimi condizionamenti e tantissime distrazioni. Sono catalizzati dai telefoni, dai videogiochi, dagli schermi. Non so cosa sognino di diventare, quali saranno i loro modelli”.
Chi è stato il suo idolo come calciatore?
“Mi piacevano quelli con un aspetto ribelle, con i calzettoni abbassati e i capelli lunghi. Mi sembravano in linea coi tempi, col ’68 prima e poi con gli anni ’70. Best, Meroni, anche Oriali. A Mike Channon, attaccante del Southampton, invidiavo le basette folte. Sembrava una rockstar. Avrei voluto averle io quelle basette, che parevano spazzole invece le mie erano rade, spelacchiate. Ogni tanto me le faccio ancora oggi, che ho l’età dei datteri, ma la situazione non è molto migliorata”.
E come uomo?
“Mio padre. Silenzioso, granitico. Dava tanti esempi e pochissimi insegnamenti. Anche sul letto di morte, mentre un tumore se lo portava via, ha dimostrato la propria forza. Mai una lamentela, mai un cedimento. Chissà dentro cosa gli succedeva, cosa gli si muoveva nel petto. Ma a noi si mostrava per quel che era sempre stato. Forte, asburgico”.
Il suo più grande rimpianto?
“Ne ho tanti. Pensando al calcio, ovviamente il rigore ai mondiali ’90 a Napoli. Ed ero il quinto. Io non sono mai stato rigorista, e Vicini lo sapeva. In carriera ne ho calciati una decina in tutto. Il mister mi chiese se ero pronto. Gli dissi che era meglio se faceva un altro giro fra i compagni, ma arrivati a tre non si fece avanti nessuno. Allora dissi che ero pronto. Ma lo diceva solo la mia voce,  le gambe non erano d’accordo. Non l’ho angolato abbastanza e il portiere ha parato. Ho sognato tante volte di poterlo calciare di nuovo, ma la vita non funziona così”.
Di cosa va invece fiero?
“Di essere riuscito a fare il calciatore. Non ci ho creduto fino a quando non è successo. Anzi, a ben vedere non ci credevo nemmeno mentre succedeva. Era il mio sogno da bambino e mi sembrava incredibile averlo reralizzato. Mi sono stupito a ogni partita, a ogni gol, fino al ritiro. È stato tutto bellissimo”.Fonte www.repubblica.it

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