Rispetto della comunità e ricerca della perfezione: questi i principi fondamentali della spiritualità giapponese. La trasgressione di questi principi e il fallimento danno luogo a conseguenze anche estreme, nel segno dell'”impermanenza” del tutto
Il Corriere della Sera, Paolo Salom
In definitiva si riduce tutto a una parola: kaizen, termine di per sé intraducibile ma che in giapponese indica la ricerca (infinita) della perfezione.
Tutto, nel Sol Levante, deve rispondere a questo concetto, dal sushi alla confezione di un pasticcino alla costruzione di un’ auto o di un ponte. In Russia, la nazionale di calcio non è riuscita nell’ impresa – ci vogliono anni e anni di tentativi ripetuti per percorrere la Via del kaizen; Honda e compagni sono ancora degli apprendisti – ma ne ha lasciato dietro di sé una metafora significativa.
Prima per mano dei tifosi al seguito, ripresi in video virali mentre spazzavano gli spalti da cartacce e bottiglie al termine delle partite cui avevano assistito; poi, e questo è apparso francamente incredibile, grazie agli stessi giocatori, capaci di ripulire gli spogliatoi dopo la disfatta con il Belgio lasciandoli brillanti come specchi, in un ordine talmente accurato da far pensare immediatamente al kaizen.
Da notare che sappiamo tutto questo non perché qualcuno dei nazionali o dell’ entourage nipponico abbia raccontato sui social quanto appena fatto ma perché una delegata della Fifa, rimasta evidentemente a bocca aperta, ha twittato una foto della stanza elogiando lo spirito sportivo della squadra giapponese, «nella vittoria come nella sconfitta».
Unico dettaglio non in linea con la perfezione dell’ opera di rassetto: un biglietto scritto, con grafia incerta, in russo: spassiba (grazie). «Questo particolare – ci dice Ornella Civardi, iamatologa, traduttrice, tra l’ altro, di scrittori quali il premio Nobel Kawabata – ricorda la storiella esemplare del monaco che, pulendo il giardino del tempio con cura certosina, lascia di proposito quattro foglie secche a rompere una perfezione altrimenti sentita come innaturale. Ad ogni modo, con il loro gesto, i giocatori hanno voluto lasciare una firma, una testimonianza di come il Giappone si percepisce e desidera essere percepito: come un Paese che ha rispetto assoluto della comunità, nel senso più largo del termine».
A conferma di questo, Junji Tsuchiya, sociologo dell’ Università Waseda di Tokyo, racconta come «noi giapponesi impariamo sin dall’ asilo che è imperativo lasciare le cose che si sono usate più pulite e belle di come le hai trovate. Tutto questo viene da un’ etica che ci chiede di mantenere in uno stato di perfezione armonica l’ interazione tra noi e l’ ambiente».
In definitiva, spiega ancora la dottoressa Civardi, che sta organizzando, a Piacenza, la Festa di Tanabata, antica tradizione popolare legata al culto delle stelle, prevista per il 7 luglio, «la base culturale di questa continua ricerca della perfezione viene dallo Shinto, la religione originaria del Sol Levante, dove al posto della dicotomia bene-male prevale quella che giustappone puro e impuro». E dunque la pulizia estrema ne è una dimostrazione evidente: «Tutto deve rispondere a questo meccanismo e tutto viene fatto in nome della comunità.
La purificazione, dell’ anima come del corpo o dei luoghi, è un segnale di corrispondenza con le forze della Natura». Cosa che si riflette anche nei gesti: pensiamo alla cerimonia del tè, dove prima della bontà della bevanda godiamo dell’ estrema armonia (dobbiamo ripetere il termine esatto: perfezione) dei movimenti di chi la prepara. E persino nel suo opposto (almeno ai nostri occhi). Perché il kamikaze che al termine della Seconda guerra mondiale si lanciava contro il nemico era il risultato culturale di una ricerca di perfezione che arrivava al paradosso di ottenerla nella distruzione di sé.
E anche la crudeltà attribuita ai soldati giapponesi rifletteva probabilmente la contrapposizione di un popolo che si percepiva come «puro» mentre gli avversari erano visti come «impuri». Per finire con gli studenti o i manager che non accettano un risultato che non sia «perfetto». E ne prendono tristemente atto.