FIRENZE – Ai tempi moderni del coronavirus Ciccio Caputo è stato l’uomo del lockdown. Il foglio che mostrò alle telecamere dopo il primo dei suoi due gol in Sassuolo-Brescia del 9 marzo scorso, ultima partita prima che il calcio italiano entrasse in quarantena, era una didascalia da cinema muto, un messaggio di prudenza contro la paura. Era scritto in stampatello. Il Charlie Chaplin in maglia neroverde, barba oltre ai baffi e sguardo serio, lo reggeva con le mani: “Andrà tutto bene #Restate a casa”. Popolato di calciofili, il Paese annotò mentalmente l’hashtag, che fece più presa di una conferenza del comitato tecnico scientifico. Così da quella sera molti si accorsero anche di un’altra cosa: che il Sassuolo aveva un centravanti forte. Infatti, nel post Covid del pallone, Caputo ha continuato a segnare. E adesso, a 33 anni, è in Nazionale da debuttante.
Eppure, quand’era giovane, stava per smettere. Due volte. La prima da ragazzino, quando sfumò il passaggio al Grosseto e lui per la delusione andava a lavorare col papà muratore. Lo spinse a continuare Onofrio Colasuonno, mister del Toritto, Prima Categoria pugliese. La seconda a 26 anni, quando al Bari fu squalificato: 3 anni e mezzo per frode sportiva, accusa stordente poi derubricata a omessa denuncia di una combine, con riduzione della squalifica a un anno, e infine cancellata dall’assoluzione della giustizia ordinaria. Intorno gli si era fatto il vuoto: tutti spariti i finti amici, che nella scia di un calciatore professionista abbondano. Lo persuase a tenere duro la moglie Annamaria. Un tatuaggio chilometrico sulla gamba riassume tutto: “Sono convinto che nella vita la parola impossibile sia un’invenzione di chi ha troppa paura per crederci davvero”. Lui ci ha creduto. Ma fino a 31 anni Francesco Caputo, attaccante normotipo, 1.81 per 74 chili come da scheda tecnica, soprannome normale come può essere Ciccio per uno nato ad Altamura, famiglia normale con padre muratore e mamma casalinga e moglie dello stesso paese e tre bambini, carriera normale con 11 campionati di serie B, 300 presenze e 117 gol suddivisi tra Bari, Salernitana, Siena, Entella ed Empoli, era il classico centravanti di categoria.
La sua normalissima categoria era appunto la serie B. L’eccezione, dopo gli inizi col Toritto e in Eccellenza con l’Altamura e in C2 col Noicattaro, era stata quel gol al Cesena in serie A nel 2010 con la maglia del Bari di Ventura, in 12 presenze. Mica facile essere profeta in patria, malgrado i 49 gol in 4 stagioni e mezza e la resurrezione sportiva dopo la riduzione della squalifica, nel processo sul calcioscommesse del 3-2 alla Salernitana: da reprobo a imputato assolto nel processo penale a capitano riabilitato, ma con più di qualche tormento. Fino al trasferimento a Chiavari. In riva al mar Ligure, sul golfo del Tigullio, Caputo ha preso la mira: 35 gol in 2 stagioni. L’ha presa così bene che poi a 31 anni, all’Empoli, è diventato capocannoniere della serie B: 26 gol con promozione. Non ha smesso nemmeno al sospirato ritorno in A, altri 16. E quando è passato al Sassuolo di De Zerbi, i gol sono diventati 21, solo 2 in meno di Lukaku: quarto dietro la Scarpa d’oro Immobile, Cristiano Ronaldo e il centravanti dell’Inter. Mancini l’ha convocato perché in quel ruolo l’età non conta: il ct nel 2019 chiamò l’allora trentaseienne Quagliarella e in questi giorni ha ribadito che un centravanti parla con i gol.
In effetti Caputo li preferisce alle interviste, anche se a Coverciano si è dovuto piegare al protocollo mediatico ed è sembrato disinvolto: “So io la strada che ho fatto per arrivare qui. La mia carriera dimostra che bisogna credere nei sogni. L’etichetta da attaccante di provincia non mi infastidisce, anzi mi dà più stimoli. Ho l’entusiasmo di un bambino”. Mantiene legami fortissimi con Conte, suo allenatore a Siena e a Bari, e con la sua terra, dove appena può va a vedere anche le partite dei ragazzi, memore di quando si presentava ogni pomeriggio al campetto dell’oratorio del Sacro cuore. Con tre amici, quand’era all’Entella, ha brevettato la birra Pagnotta, che ha il famoso pane di Altamura tra gli ingredienti. Da allora ha iniziato a esultare dopo ogni gol col gesto di chi beve una pinta. A Chiavari avrebbe potuto adagiarsi nella dimensione del centravanti di serie B, invece è proprio da quella base ideale che si è arrampicato più in alto, anche se le tappe successive, Empoli e Sassuolo, gli hanno lasciato l’etichetta di cui sopra, quella del giocatore di provincia. Rilevano le statistiche che crea spesso gol dal nulla, ma non disdegna l’assist, e che il suo egoismo si limita per lo più alla voglia di battere i rigori, lui che rigorista specialista non è. Rilevano invece i tecnici che nel repertorio ha un segreto, lo stesso di Benzema, Suarez e Ibrahimovic. In gergo si chiama “doppio scalino” e consiste nell’innata capacità di rubare alle difese la frazione di secondo in cui, mettendosi in linea per fare il fuorigioco, gli avversari creano inevitabilmente due scalini immaginari. Lì s’infila spesso Caputo, per scattare e segnare. Ora lo scalino è la Nazionale: sta all’uomo del lockdown cercare di non scendere.Fonte www.repubblica.it