Novak Djokovic era già da tempo un serissimo candidato al GOAT del tennis, l’acronimo di “Greatest Of All Time”, il più grande di tutti i tempi. Se lo merita per i numeri. Primo fra tutti, il 17, nella casella dei titoli del Grande Slam vinti, che ha ritoccato domenica a Melbourne portandosi a due sole tacche da Rafa Nadal e a tre dal record di Roger Federer, con un anno di vantaggio rispetto allo spagnolo (32 anni contro 33) e sei rispetto allo svizzero (che ne ha 38). Un numero che, mentre per i protagonisti della più leggendaria rivalità del sport sembra sempre più definitivo, per lui è decisamente in evoluzione. Così come il computo dei 56 grandi tornei vinti, comprensivi dei 5 Masters e dei 34 Masters 1000, in vantaggio di 2 sui soliti noti Federer e Nadal.
E’ una certezza talmente ineluttabile che anche lui, pur sempre attento a non apparire troppo protervo, ha appena ribadito di avere come primo obiettivo: “Voglio vincere più Slam di tutti, questa e la prossima stagione saranno decisive, mi ci dedicherò con tutte le energie che ho”. Con la solita prepotente sicurezza con la quale, arrivando sul circuito pro, aveva promesso: “Diventerò il numero 1 del mondo”. Cifra anche questa che sembra proprio destinato a sottrarre dalla bacheca dei record di Federer: ridetronizzando da questo lunedì Rafa dalla poltrona di re della classifica, comincia la settimana numero 276 in sella all’ATP Ranking, con appena 135 punti da difendere fino a Miami e quindi la più che plausibile possibilità, in proiezione, di superare il 20 aprile il primato di 286 settimane di Pete Sampras e il 5 ottobre il limite massimo di tutti i tempi di 310 settimane, fissato da Roger Federer.
Novak I di Serbia non è un campione amabile come la premiata coppia “Roger & Rafa”, ed è l’unico a stupirsene. Anche se ha fatto dell’essenzialità, della concretezza, del risultato fine a se stesso la sua ragion di vita. Come ha appena confermato nella finale strappata con la forza dalle mani di Dominic Thiem, concedendo all’ottimo rivale secondo e terzo set, solo per recuperare le energie psico-fisiche necessarie per rovesciare la partita quando il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare. Cioè sulla lunga distanza dei cinque set sempre meno praticata nel tennis moderno e che invece i grandi vecchi conoscono bene, con le sue ferree regole di gestione della fatica, delle emozioni, dello stress, della ripartenza. Nole colpisce per i primati, sempre numerici, dagli 8 Australian Open che fanno del cemento “down under” il suo feudo – così come il Roland Garros, con 12 trionfi, è la terra promessa di Rafa -, ai cinque degli ultimi sette Majors. Colpisce per la determinazione quasi feroce che gli deforma i lineamenti nel momento topico della battaglia e fa demordere anche i più strenui avversari. Colpisce perché le sue punte più alte sono più alte e imbattibili di quelle di Federer e Nadal: non tanto per la bellezza o la difficoltà dei colpi quanto perché chiude tutti gli sbocchi, si attacca alla giugulare del nemico e non gli lascia via di scampo. Mentre anche i mitici rivali concedono sempre un’altra chance, insieme a qualche briciola di soddisfazione, un errorino qua e là, un applauso di incoraggiamento, un anelito di speranza. Nole il terribile invece no. Anzi, proprio quando sembra meno bello ed efficace, proprio quando sembra solo rimettere la palla di là del net, impotente, perso nella sua trincea di fondocampo, è più pericoloso, più cattivo, più pronto a ributtarsi avanti imbracciando la baionetta, ancor più impavido e determinato, sempre più veloce ed elastico, nello scivolare su qualsiasi terreno, più di qualsiasi umano, con quelle gambe di ferro da sciatore, zigzagando miracolosamente sui terreni minati più infidi. Ancor più efficace e imbattibile come tutte le volte che si trova con le spalle al muro e non ha altra via di fuga che combattere. E lo fa con sanguinosa convinzione, come se lottasse per la sua stessa vita. E per quella del suo piccolo, orgogliosissimo, popolo. Così come domenica a Melbourne recitava la T-shirt di uno dei seguaci. “La Serbia contro il mondo”. La Serbia schiacciata dalle bombe della Nato sotto le quali è cresciuto Djokovic, che nessun serbo ha mai dimenticato, e che si rilancia e si riscatta orgogliosa, davanti al mondo, proprio con le vittorie del suo figlio prediletto, Novak. Dopo questi interessantissimi Australian Open, l’ottimo, miglioratissimo Dominic Thiem che completa la sua evoluzione dalla terra al cemento, si lecca frustrato le ferite dopo una finale meravigliosa, quasi vinta ma poi, nella realtà, persa malamente. Stia sereno: un campione più grande di lui, come Roger Federer, ebbe la stessa medesima sensazione quando si vide soffiare sotto il naso dal campione di gomma di Belgrado le due semifinali consecutive agli Us Open 2010-2011, sempre con due disperate invenzioni di Nole, e ha rivissuto la stessa amarezza a luglio, quando non ha fatto in tempo a stringere fra le mani il nono urrà a Wimbledon che i due match point sono evaporati esattamente come a New York. Contro Il Magnifico, Djokovic ha usato la contraerea, le risposte, i passanti, contro “Il nuovo Muster” che aveva vinto la partita di forza, da fondocampo, Nole ha usato l’attacco a rete, 24 punti su 29 discese.
Dimostrando di poter disporre di un arsenale davvero completo da campione assoluto del suo sport. Attenzione: buttarsi a rete non è stata l’ultima via dettata dalla disperazione, ma la fredda decisione del Diabolik del tennis, uno che, detto con parole sue, “viene dal niente”, ha dovuto lottare per tutto: “Per questo sono capace di trovare dentro di me una marcia in più. Durante la guerra, dovevamo fare la fila per tutto, per il pane, l’acqua e il latte. Queste cose rendono più forti, più affamati di successo”.
Così, forte di questi numeri e queste armi paralizzanti che vanno oltre il servizio (miglioratissimo con l’apporto di Goran Ivanisevic), il rovescio (dalle mille e una opzioni) e il dritto (sempre solido), Novak Djokovic è già talmente oltre la leggendaria coppia “Roger & Rafa” che quei due si sono coalizzati contro di lui, come s’è visto chiaramente nell’ultima Laver Cup e nelle recenti battaglie politiche al vertice dell’ATP Tour. Ma non c’è niente da fare: oggi, Novak rappresenta ancor meglio di loro il tennis moderno, con questi attrezzi e questi campi. Figurarsi sul cemento di Melbourne con le palle più pesanti di quest’anno, e quindi condizioni ancora più lente e controllabili per lui.
Novak Djokovic La verità è che, come già due anni fa, l’unico che può davvero battere Djokovic è solo e soltanto Djokovic stesso, la sua anima ribelle, la sua testa più analitica, la sua ambizione più incontentabile, la sua voglia di stravincere. Tutti diavoletti con cui dovrà confrontarsi prestissimo, sulla terra rossa di Parigi, da sempre la superficie più infida per lui. E per le sue ambizioni del famoso GOAT del tennis. Che, in realtà, è già saldamente nelle sue mani. Almeno limitatamente ai suoi tempi, l’unico che si stacca e rimane lontano è Rod Laver, campione di due Slam, che tifa Federer. Ma questa è un’altra storia. Le affinità elettive, i gusti personali, la bellezza in sé non sono questioni da GOAT.