ROMA – Alessandro Piperno, scrittore, noto tifoso laziale, chi è Arcadio Spinozzi, perché è stato così importante per lei e con quale giocatore di oggi l’ha sostituito?
“Arcadio Spinozzi militava in quella squadra – così importante per i laziali della mia generazione (ho 48 anni) – che tornò in serie A dopo qualche stagione triste e umiliante. Certo, non c’era solo Spinozzi. C’erano D’Amico, Giordano, Manfredonia, Orsi, Podavini e tanti altri. Ma chissà perché la mia fantasia di decenne fu completamente conquistata da quella figura severa, barbuta e spigolosa. Un classico marcatore anni ’70. Perché lo idolatravo? Forse lui era semplicemente il giocatore in cui mi veniva facile identificarmi, lo stopper che mi sarebbe piaciuto essere: limitato e coraggioso, austero ma efficace”.
Ha scritto che la Lazio le piaceva anche negli anni più oscuri quando era “una squadra disgraziata, derubata, degradata”. Una passione che vale proprio perché sciagurata e masochistica?
“Mi lasci dire che per convinzione e temperamento rifuggo ogni passione identitaria. Non ho mai aderito a cause ideologiche o a movimenti politici, mai partecipato a una manifestazione, mai firmato appelli o petizioni. Non ho convinzioni da difendere o propagandare. Insomma, sono ciò che si potrebbe definire un solipsista perplesso. Ebbene, il solo tipo di faziosità capace di scaldarmi il cuore è quella generata dal tifo calcistico. La sola piazza in cui mi sento a mio agio è la tribuna di uno stadio. Lo so, è un gioco, la più frivola delle passioni, ma forse proprio per questo riesco a prenderla così seriamente. Non posso dire neppure di essere un amante del calcio, né un intenditore. Certo, mi piace, ma forse potrei farne a meno. Io sono un tifoso. E non uno qualsiasi: sono un tifoso della Lazio. Uuna disciplina interiore che scantona nello stoicismo. La Lazio è una squadra scalognata: il che rende la passione che m’ispira ancora più esclusiva”.
Vent’anni fa la Lazio vinse lo scudetto. Quell’attesa nello stadio mentre a Perugia diluviava e la Juve perdeva, è stata la sofferenza più bella?
“Ho un ricordo abbastanza preciso della lunga attesa, per non parlare dell’improvvisa consapevolezza che m’investì di essere Campione d’Italia. All’epoca ero abbonato in Tribuna Monte Mario con mio fratello. C’era tanto sole ma non faceva così caldo. Continuavo a ripetermi: “Ho vinto, ho vinto” ma più passavano i minuti più una domanda impertinente emergeva dal fondo della coscienza: “Ok, sì, ho vinto, ma in pratica cosa diavolo ho vinto?”. Ecco, la cosa che ricordo meglio è quel senso di crescente incredulità, come se avessi appena scoperto di essere il vincitore della lotteria di capodanno. La similitudine è funzionale al fatto che di solito chi vince la lotteria finisce male: anche quella Lazio munifica e spettacolare sarebbe andata in malora molto prima di quanto, in quel trionfale pomeriggio di maggio, potessi immaginare”.
Cosa significa crescere da laziale a Roma?
“Quando cammini per strada ci sono buone probabilità che le persone che ti si fanno incontro, togliendo gli agnostici, siano dell’altra sponda calcistica. Questo ti rende diffidente, condannandoti a una sorta di sindrome di accerchiamento; allo stesso tempo ti tempra il carattere e ti rende fiero e ironico”.
Cosa pensa di Ciro Immobile diventato scarpa d’oro, proprio lui dopo le vittorie di Messi?
“Penso che Immobile sia il capolavoro della coppia Lotito-Tare. Con quello che costano i centravanti, comprarne uno per due spiccioli (si fa per dire) i cui numeri sono appena al di sotto di quelli di Messi, Lewandowski e Ronaldo è un colpo di genio”.
Ma non è che la gestione Lotito-Tare sta normalizzando la storia di follie, miserie e resurrezioni che accompagna le sue stagioni laziali? Non c’è il gruppo pazzamente magico di Maestrelli, non c’è una società sull’orlo dell’abisso e nemmeno il club pericolosamente ambizioso di Cragnotti. Insomma: un passo alla volta, un quarto posto, una supercoppa. Senza drammi ne’ sgangherate velleità…
“No, non lo penso. Credo che Lotito abbia un tocco di follia parecchio laziale. Non è soltanto un gestore oculato, è un autentico outsider. Ora, non posso dire che mi piaccia il suo stile (non mi piace affatto) ma gli riconosco capacità straordinarie che sembrano provenire da un misto di ostinazione e tracotanza davvero impressionanti”.
Cosa servirebbe al tifoso Piperno quest’anno, dopo mezza stagione di calcio senza pubblico e un mercato non proprio irresistibile?
“Non credo che mi abituerò mai al calcio senza pubblico, tanto meno a guardare le partite a casa in panciolle. E’ uno strazio malinconico. Per quanto riguarda il “calcio mercato non proprio irresistibile”, solo un ingenuo poteva credere che Lotito si sarebbe comportato in modo diverso dal solito. A lui non interessa il piazzamento della squadra: se arriviamo quarti o decimi fa lo stesso, investe i medesimi quattrini. Così è sempre stato e così sempre sarà. Del resto, l’assioma secondo cui chi spende molti soldi è destinato a vincere si è dimostrato fallace: troppo facile indicare esempi virtuosi come il Bayern Monaco e l’Atalanta. Mi spiace solo che le trattative della Lazio siano sempre così esasperanti: per i tifosi, per i giocatori e persino per l’allenatore”.
Veron dice che Luis Alberto gli assomiglia. Gargaschelli dice che assomiglia a Mancini e Baggio, Gene Gnocchi sostiene che assomigli a Gene Gnocchi…A lei chi ricorda?
“Per me è lui il vero fuoriclasse della Lazio. E incarna una tipica storia laziale. Arriva da noi in sordina, fa un anno disastroso, flirta persino con l’idea di lasciare il calcio a soli ventisei anni, per poi sbocciare nel modo più assurdo e imprevedibile rendendosi insostituibile. Non so a chi somiglia. Di fronte a certi assist chirurgici e felpati mi pare il sosia dell’Iván de la Peña che avrei voluto vedere giocare nella Lazio ma che, ahimè, non è mai arrivato”.
Negli ultimi vent’anni, da Eriksson a Simone Inzaghi, qual è stato il suo allenatore preferito e perché?
“Bah, sono il classico tifoso becero e volubile. Non c’è allenatore con cui non me la sia presa auspicandone l’immediato esonero. Devo dire che Inzaghi (cui non ho risparmiato critiche tanto severe quanto incompetenti) ha le physique du rôle dell’allenatore-gentiluomo, un tipo umano che mi piace parecchio. E almeno in questo mi ricorda molto Eriksson”.
Una volta raccontò del suo psicanalista, il dottor Pasquino, certamente un romanista. Che ne e’ stato di lui? Lo ha mai sognato? E quanta Lazio c’è nei suoi sogni?
“In realtà quello da lei citato è un nome di fantasia. Per ovvie ragioni di discrezione non credo di aver mai rivelato pubblicamente quello reale. Non lo vedo da un paio di decenni, e non credo di averlo mai sognato. D’altronde, di rado ricordo i miei sogni. Ma se è di sonno e di veglia che vogliamo parlare, mi sembra più onesto rilevare come la Lazio mi abbia fatto passare parecchie notti insonni”.
Una volta cercò di farsi fare un autografo da Almeyda. Non andò benissimo. Meglio tenersi lontani dagli idoli?
“Era dopo la famosa partita vinta a Torino contro la Juve (gol di Simeone), l’anno del secondo scudetto. All’epoca andavo a vedere le partite a casa di amici all’Olgiata (un comprensorio residenziale che dista pochi chilometri da Formello, il complesso sportivo dove la Lazio si allena). Così decidemmo di andare ad aspettare i giocatori. Mal me ne incolse. Quando vidi uscire dal cancello la Ferrari gialla di Almeyda mi ci avventai per farmi fare un autografo. Per poco non m’investì. Da allora preferisco che gli dei non scendano dall’Olimpo”.
Come vede le partite? Da solo? Dove? Andrà ancora allo stadio?
“Quelle casalinghe allo stadio: sono abbonato in Tevere. Lo ammetto, non sempre mi piace andarci. Quando fa freddo, quando piove, può essere uno strazio. Per non dire dei parcheggi che non si trovano e delle forze dell’ordine che ti perquisiscono. No, non si può dire che sia un’esperienza gratificante. E tuttavia ci vado: come a Messa o in Sinagoga. Per le trasferte, invece, invito un paio di amici. Quando posso cucino per loro: il clou della mia vita mondana”.
Come può un materialista come lei, adorare una squadra?
“In parte credo di aver già risposto. Diciamo che, con la sola eccezione della narrativa per cui ho una passione insaziabile, il tifo calcistico è la sola forma di Sublime cui possa aspirare senza sentirmi eccessivamente ridicolo”.
Ha usato la categoria del grottesco per descrivere le tragiche assurdità del calcio, del tifo, dello stadio. Lo fece quando i laziali distribuirono immagini di Anna Frank con la maglia della Roma. Spesso le hanno chiesto di come possa conciliare il suo essere ebreo con l’antisemitismo della curva laziale. Dopo tante risposte, quale darebbe ora? C’è ancora molto di grottesco?
“Diciamo che l’esperienza dello stadio mi pare oramai appartenere a un’altra epoca della storia umana. Forse anche per questo, per deficit di esperienza, non ho molto da aggiungere a ciò che scrissi allora: chiunque mescoli una cosa ludica, gratuita, sentimentale come il tifo calcistico con qualsiasi forma di settarismo ideologico (antisemita, razzista, omofobo, in poche parole violento e criminale) è un individuo grottesco e degno dal massimo disprezzo”.
Fonte www.repubblica.it