avvocatoinprimafila il metodo apf

Puskas, un mito senza tempo: la Grande Ungheria diventa un musical

ROMA – In campo sembravano ballerini per l’eleganza dei movimenti e per gli schemi di gioco mai visti prima. E sapevano far cantare il pallone con tocchi smaliziati e delicatissimi. Era quasi uno spettacolo di varietà la nazionale ungherese di Puskás, Boszik, Hidegkuti, Kocsis, Czibor degli anni Cinquanta, che ora diventa un musical. Per qualcuno fu la squadra più forte di tutti i tempi, di sicuro quella della propra epoca, se si pensa che dal 1950 al 1956 giocò 50 partite, ne vinse 43, ne pareggiò 6 e ne perse una, peccato che quell’una fosse la finale della Coppa del mondo. Dopo essersi meritata il soprannome di “squadra d’oro” (Aranycsapat in ungherese), tutto finì di colpo, e in un modo che fu tra i motivi per cui nel 1956 gli ungheresi si ribellarono al comunismo, o almeno ci provarono visto che la rivoluzione fu soffocata dai carri armati di Mosca. Una storia su cui sono stati scritti libri e girati film, ma a un musical non aveva pensato mai nessuno. Lacuna colmata oggi, giorno in cui al teatro Erkel di Budapest debutta Puskás il musical proprio sul più grande calciatore ungherese di tutti i tempi, l’unico non re a essere sepolto nella Cattedrale di Santo Stefano. E anche la data di debutto non è scelta a caso: il 20 agosto 1945, esattamente 75 anni fa, Ferenc Puskás debuttava in nazionale, in un’Ungheria-Austria finito 5-2 in cui segnò subito un gol, un ‘abitudine che non smise più visto che in 85 presenze totali con la maglia rossa la mise dentro 84 volte, con una classe, un talento, una personalità e un senso del gioco che hanno avuto pochi altri esempio nella storia del calcio.

Lo spettacolo racconta la sua vita partendo dal 1937, quando ha 10 anni e, talento precosissimo, viene  ingaggiato dalla Kispest, la squadra che poi sarebbe stata ribattezzata Honvéd, e arrivando al 1960, quando – dopo essere fuggito dall’Ungheria invasa dall’Unione Sovietica, – diventa un’acclamata stella del Real Madrid accanto ad Alfredo Di Stefano. Pur essendo un musical, e quindi spettacolarizzando tutto il più possibile tra coreografie, canzoni e balletti, lo spettacolo si basa sempre su storie vere, nessun personaggio è inventato e anche l’ambientazione è quella dell’epoca. Certo, l’idea di un musical può lasciare perplessi, se pensiamo alle atmosfere giocose e chiassose di questi spettacoli: l’argomento sembrerebbe prestarsi più a un dramma teatrale, per le passioni che sa suscitare il calcio (specie in un Paese come l’Ungheria dell’epoca, che viveva sotto una ottusa dittatura e aveva solo lo sport come sfogo) e la tragedia di un popolo che prova a ribellarsi e viene ripagato con una feroce invasione, che tra l’altro mette fine alla nazionale dei sogni, i cui giocatori scappano tutti all’estero. Tutto questo il produttore László Szabó lo sa: “È una mossa coraggiosa fare un musical su Puskás, ma ne valeva la pena. Questo spettacolo potrebbe girare qualunque palco nel mondo, così come Puskás poteva giocare su qualunque campo. E lui incarnava tutto quello di cui noi ungheresi siamo fieri: patriottismo, coraggio, amicizia, lealtà e furbizia”.

A proposito di patriottismo, stasera lo spettacolo sarebbe dovuto andare in scena a H?sök tere, la piazza degli eroi, monumentalissima rappresentazione dell’orgoglio magiaro che ne celebra la più che millenaria storia, ma le norme anti-Covid l’hanno per il momento bloccato. Se ne riparlerà quando si potrà, sperando anche che ci siano altre date visto che quella di oggi è l’unica al momento. E sarà in un classico teatro, benché il più grande di Budapest. Sul palco 21 attori (capitanati da Tamás Veréb, che di Puskás ha gli stessi capelli tirati all’indietroi con la brillantina, ma anche parecchi chili in meno), 60 ballerini e 30 attori bambini. A scrivere lo spettacolo, un trio di autori di musical molto affermato in patria, Levente Juhász, Attila Galambos e Vajk Szente, che cura anche la regia e che ha spiegato: “Conosciamo tutti la storia di Puskás e dell’Aranycsapat, ma per spiegarla davvero bisognava raccontare anche le vicende personali. Così quando abbiamo deciso di scrivere il musical, ci siamo trovati d’accordo su due cose: non doveva essere un musical di calcio, ma eroico, e – a parte lo sfarzo della messa in scena – la cosa più importante era l’aspetto psicologico”. Chissà, l’idea si potrebbe adattare anche ad altre nazioni: lavorandoci su, la staffetta Mazzola-Rivera di Mexico ’70 potrebbe tranquillamente diventare un balletto.Fonte www.repubblica.it

Exit mobile version