Dicono che vogliono la rivoluzione. Dicono che sarà un’evoluzione. Così i Beatles arriveranno al numero 1 anche in Australia in un 1968 destinato a segnare la storia. Un anno che Down-Under inizia col tour degli Who e un’edizione degli Australian Championships sospesa tra la fine e il nuovo inizio. Il tabellone maschile è povero come poche volte si è visto.
Non c’è Roy Emerson, dominatore delle precedenti cinque edizioni, passato professionista come Roche e Newcombe, entrati negli “Handsome Eight”, il primo nucleo di quel che sarà il WCT.
Non c’è Arthur Ashe, finalista l’anno prima, che sta servendo nell’esercito. Non c’è Owen Davidson, australiano di ottimo livello che ha accettato un lavoro per la LTA britannica. E proprio di Gran Bretagna si discute nei primi giorni del torneo.
A febbraio, infatti, è previsto il voto della federazione internazionale sull’apertura ai professionisti, ma dall’Inghilterra annunciano che Wimbledon sarà comunque open e ufficializzano i montepremi. Rischierebbero l’esclusione dalla Coppa Davis, ma i tempi sono maturi per la rivoluzione.
Niente stelle L’Australia aspetta con disinteresse e si diverte, nemmeno troppo, a Kooyong, “il posto dei polli selvatici”, questo il significato del termine aborigeno da cui prende il nome. È un impianto vecchio stile, come Forest Hills a New York.
Ma non ci sono stelle, nel tabellone maschile: 47 dei 64 nel main draw sono australiani, e molti non hanno mai giocato in uno Slam. Le teste di serie allora vengono scelte con doppio binario: gli otto migliori australiani e gli otto migliori stranieri. Il miglior dilettante di casa è William Bowrey. Tennista completo, lavora duro, non molla un punto.
È anche un ottimo doppista, ha giocato tre finali Slam con Davidson. Il miglior straniero è lo spagnolo Juan Gisbert, che in semifinale elimina la testa di serie numero 2, Ray Ruffels. Gli serve forte e carico, in kick, contro il dritto e l’australiano, con la presa Continental, va in difficoltà.
Ci sono meno di 3 mila persone il giorno della finale. Gisbert sfida proprio Bowrey, tenta la stessa strategia al servizio ma l’australiano anticipa di rovescio in risposta. È il suo colpo migliore.
Vince il primo set 7-5, perde il secondo, il primo nel torneo, e va sotto 4-1 nel terzo. Disegna il miglior passante di rovescio del match, però, e ribalta la finale. Vincerà 7-5 2-6 9-7 6-4. Per il titolo riceverà un distributore da caffè e un ornamento delle dimensioni di un fermaporta.
Nel tabellone femminile, l’ultimo Slam per soli dilettanti si trasforma nel trionfo dell’icona che inventerà il professionismo per le donne: Billie Jean King.
Perde un solo set in tutto il torneo, nella semifinale contro Judy Tegart, australiana dello stato di Victoria. I giornali si stupiscono, quel giorno, del look casual del governatore Sir Rohan Delacombe e della first lady, che sulle tribune indossa uno smanicato di cotone bianco e blu zaffiro.
In finale affronta Margaret Court, che ha vinto il titolo sette volte nelle sette precedenti partecipazioni. I tempi sono ancora lontani dalle battaglie dei sessi e dalle rivendicazioni ultra-cattoliche.
La partita però non ha storia. King gioca un match perfetto, Court probabilmente il peggiore della sua carriera. Vince 15 punti per set, King domina 6-1 6-2 in 39 minuti. La faranno, la rivoluzione. E c’è ancora chi dirà che non è stata un’evoluzione.