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Rob Mendez
Il coach della squadra di football arriva al bar della scuola, indossando t-shirt bianca e cappellino dei San Francisco 49ers. Tutti lo salutano, fino a quando non arriva al bancone del sushi e chiede a qualcuno vicino, mi passeresti un piatto? E lì resti per un attimo confuso. Rob Mendez, 30 anni, coach della squadra di football della Prospect High School, California, pesa meno di venticinque chili, è privo di braccia e gambe, il torso è allacciato a una sedia elettronica a rotelle.
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Rob Mendez
Mendez sta diventando un’icona dello sport americano: nato senza arti per una rara malattia genetica, ha sempre sognato di allenare. Dopo dodici anni di sforzi, è arrivato il suo momento: nella scorsa stagione ha guidato con successo la squadra junior, seduto sulla poltrona elettronica mobile che Mendez controlla con il movimento della testa. Nella prossima stagione vuole portare la squadra a vincere il Super Bowl giovanile.
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Espn gli ha dedicato un docufilm. Il giovane coach è una delle sette persone al mondo con questa sindrome, ma lui non ci crede: “Garantisco che sono molti di più, solo che sono meno attivi di me, per quello non appaiono”, racconta nel documentario.
La madre scoprì la sindrome all’ottavo mese di gravidanza, troppo tardi per pensare all’aborto. Una volta nato, Rob ha portato in famiglia un’energia nuova. Ha cominciato a studiare da coach fin da bambino, giocando con la playstation con la sorella, pigiando i pulsanti con il mento. A scuola, organizzarono un torneo di football virtuale con trentadue squadre: lui arrivò secondo. Quando gli amici entrarono nella squadra dell’high school, lui venne preso come team manager.
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Con l’aiuto della tecnologia, scia, nuota, gioca a hockey come portiere, disegna e scrive usando il mento. Gli hanno offerto 25 mila dollari per parlare a uno di quegli incontri motivazionali che in America vanno molto, ma ha detto no. “Voglio fare il coach di football”. Ha lavorato come assistente in cinque scuole, in attesa che qualcuno gli affidasse il ruolo di capo allenatore. La chiamata è arrivata ad aprile dell’anno scorso.
La Prospect High School cercava qualcuno che aiutasse a fare un cambio culturale. Su Internet avevano trovato il nome di Mendez e l’avevano contattato. Quando i giocatori lo vedono per la prima volta, rimangono in silenzio. Uno va via, gli altri pero’, con il passare del tempo, cominciano a seguire le sue indicazioni. Dopo la prima sconfitta, arrivano sette vittorie consecutive. Adesso, quando detta le istruzioni, lo ascoltano tutti convinti. “C’è una parola che mio padre non ha mai amato – racconta Mendez – la parola è speciale. Siamo tutti speciali, gli altri ragazzi sono speciali. Mio padre mi direbbe, tu non sei speciale, sei diverso. Ed essere differente non è così male, perché spingi i tuoi limiti”.
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