TORINO – Non si può nemmeno dire che sia rimasta l’unica cosa sulla quale siano tutti d’accordo in casa Toro (quella che comprende tutti: anche – anzi soprattutto – i tifosi). Perché sono ormai tristemente diventati troppi perfino i cuori granata che non solo augurano a Belotti di fuggire da questa tristezza calcistica e ambientale, ma addirittura se lo augurano. Nel senso che proprio lo auspicano, con commenti espliciti: per il bene che gli vogliono e la stima che gli riservano, ma anche per l’avversione alla società e le distanze siderali (tecniche e morali) che lo distinguono e in un certo qual modo lo separano dal resto della squadra. In realtà, però, nessuno lo pensa davvero: nemmeno quelli che invece, piegati dal disincanto e piagati dalla frustrazione, sostengono convinti di sì. Fanno i cinici, animati dal sarcasmo dello sfinimento, ma non riuscirebbero mai ad accettare (pure) la perdita del Gallo, accogliendola con un «meno male, siamo contenti per lui». Perché è rimasto, Belotti, l’unico pezzo di Toro nel quale potersi riconoscere, se non identificare, guardando quella fascia di capitano librarsi in aria e sbattersi ovunque per il campo nel tentativo di non arrendersi mai a un destino di sconfitta che sembra divenuto ineluttabile.
Toro, ma quanti giocatori credono in Giampaolo?
È talmente Toro, lui, da essere riuscito a meritarsi e a giustificare, agli occhi dei granata come a quelli degli juventini, un premio come quello di Tuttosport intitolato a Scirea, rivale cittadino dei granata sempre rispettato anche da vivo, pure quando i derby erano ruvide, furenti battaglie da tregenda. C’è stato un momento sabato scorso, sul risultato di 2-0 per l’Udinese, emblematico. Spinto dalla determinazione prima ancora che dalla logica tattica, come spesso gli accade, Belotti è andato a sradicare un pallone agli avversari sull’out sinistro, in zona d’attacco: c’è riuscito, ma quel pallone è rimasto lì, a vagare ramingo verso il vertice basso dell’area, finché non è arrivato un difensore a recuperarlo e a rifarlo suo, perché Vojvoda – seppur in zona favorevole per correre ad azzannarlo – era rimasto a guardare. Non era pigrizia fisica, quella del fin qui inconsistente terzino kosovaro, bensì mentale. Carenza di fede e di rabbia. Quelle che invece animano -incredibilmente ancora e sempre – l’unico giocatore simbolo del Toro da cinque anni a questa parte. […]
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Fonte tuttosport.com