Roma l’aveva lanciato, anche troppo in alto, anche troppo in fretta, nel 2017, quando Sascha Zverev in un giorno solo strapazzava in un’ora e 21 minuti Novak Djokovic per 64 63, firmava il primo grande torneo, irrompeva nei “top ten” della classifica mondiale da numero 10 e diventava il primo giocatore nato negli anni Novanta a conquistare un torneo Masters 1000. Già numero 1 del mondo under 18, già campione degli Australian Open di categoria nel 2014, da pro, a 19 anni, il bambino d’oro del tennis aveva fallito un match-point contro Nadal a Indian Wells, aveva battuto Federer sull’erba di Halle e aveva siglato il primo titolo Atp a San Pietroburgo: a 20, appena compiuti, agli Internazionali d’Italia volava in un attimo alle stelle e a novembre saliva al numero 3 del mondo.
Poi, dopo un altro anno da favola, concluso col clamoroso trionfo al Masters di Londra, superando sia Federer che Djokovic, ha avuto una serie di problemi personali (dal papà al manager) e di crescita, s’è ribellato come un purosangue bizzoso ai coach di nome, Juan Carlos Ferrero e Ivan Lendl, che volevano mettergli le briglie, è entrato in crisi persino con la sua arma paralizzante, il servizio, non ha tenuto il ritmo dei più forti, almeno nei tornei dello Slam, ed è uscito dal cono di luce dei riflettori. Superato dagli ex rivali juniores, da Medvedev, da Tsitsipas, da Thiem, dal ritorno dei grandi vecchi. E’ anche uscito dai primi 5, ma poi c’è rientrato e, a fine 2019, da numero 7, festeggia un record che lo rilancia nel firmamento fra le stelle più grandi. Solo altri sei fenomeni avevano chiuso da under 22 tre stagioni di fila nei top ten: Bjorn Borg 1974-76, John McEnroe 1978-80, Ivan Lendl 1980-82, Mats Wilander 1982-84, Boris Becker 1985-87 e Stefan Edberg 1985-87.
Già, perché “Sascha” è ancora giovanissimo. E’ bene ricordarlo a chi aveva esaltato in modo smodato il tedesco di ceppo russo, proiettandolo troppo in fretta e con troppa faciloneria al ruolo di nuovo numero 1, dimentichi della parola esperienza e del carattere non facile di un campioncino viziato dal talento. E quindi testardo, capriccioso, abituato a vincere, e anche da sempre sotto pressione, che doveva comunque stabilizzarsi, trovando un equilibrio suo. Come dicono chiaramente i risultati negli Slam, dove dissipa troppe energie nei primi stadi del torneo, perde troppi game, deve restare troppe ore in campo e si ritrova un po’ scarico nella seconda settimana. Tanto da aver raggiunto al massimo il livello dei quarti di finale, e solo al Roland Garros di quest’anno. A fronte però di 11 titoli già conquistati sull’Atp Tour e di molti progressi sotto l’ala protettrice di Roger Federer, l’eroe che batte spesso in campo e di cui è cliente nella scuderia Team8, oltre che fedele spalla nella Laver Cup come nella ricca tournée d’esibizioni in Sud America.
Tecnicamente e fisicamente, a Sascha Zverev non manca nulla per diventare davvero il prossimo numero 1 del mondo, con diversi tornei dello Slam nel carniere, perché può esprimersi al meglio su tutte le superfici, dalle più veloci alla terra rossa. Ma deve ancora trovare la quadra, deve ancora sistemare parecchie cosucce dentro la sua testa e gestire i momenti topici del match, oltre che qualche problemino negli spostamenti. Limite normalissimo per un trampoliere come lui, di 1.98 centimetri di altezza per 90 chili scarsi di peso.
Quel che lascia più perplessi, di lui, è l’attitudine, come l’ha rimproverato, dispiaciuto, quell’ottima persona di Juan Carlos Ferrero, tirandogli pubblicamente le orecchie. Ma quale grande campione del tennis è stato veramente un fenomeno di comportamento? Se guardiamo appunto agli altri sei assi anche di precocità che hanno preceduto Zverev fra i top ten per tre stagioni di fila, da Under 22, forse solo i due svedesi, Borg ed Edberg avevano questa gran bella qualità umana. Gli altri erano campioni dall’incommensurabile ego. Alteri, bizzosi, imprevedibili, geniali, totali, anche antipatici. Ma unici, irripetibili, e vincenti, soprattutto, indimenticabili. Come Sascha Zverev. Da sopravalutato a sottovalutato?