avvocatoinprimafila il metodo apf

Accademia dei Videogames, in Italia il settore giochi virtuali cresce e diventa promettente

Un italiano su due gioca ai videogiochi e gli adulti appassionati sono sempre di più. Stare attaccati alla console non significa più solamente lanciarsi in un passatempo ma vuol dire sempre più imparare, con i videogiochi a scopi educativi

(Il Giornale) Oggi i videogiochi, sempre più sofisticati e cinematografici, sono pronti a una nuova sfida: uscire dal mondo del mero intrattenimento e diventare un’opportunità di lavoro per i giovani. L’Italia, che conta 30 milioni di giocatori di ogni età, è pronta non solo a comprare videogiochi ma anche a inventarli e produrli. Tanto che le scuole di formazione, a più livelli, sono almeno una decina e, anno dopo anno, stanno sfornando la nuova generazione di programmatori, game designer, informatici che conquisterà un mercato al momento coperto solo al 5% con prodotti made in Italy. Nelle aule si studiano le tecniche algoritmiche, le conoscenze di hardware, rete e computer grafica. Ben consapevoli che il videogioco è un prodotto molto complesso che coinvolge figure professionali molto differenti, compresi artisti, grafici e musicisti. Chi l’avrebbe mai detto ai tempi di Pong.

Negli ultimi anni sono proliferati i corsi di formazione, le lauree e i master e, con un po’ di ritardo rispetto a Inghilterra e Paesi scandinavi, anche in Italia stanno nascendo figure professionali ad hoc legate sia alla progettazione sia alla programmazione dei giochi.

La prima ad avviare un percorso di studi in videogiochi è stata l‘Università degli Studi di Milano che ha inserito la specializzazione nella laurea magistrale in Informatica e attira una settantina di iscritti ogni anno.

Al Politecnico il corso di Videogame design and programming è svolto interamente in inglese all’interno del corso di laurea in Ingegneria informatica e, in base agli ultimi dati, il 43% degli iscritti viene assunto da un’azienda del settore ancor prima di discutere la tesi. L’Università di Verona ha un master, già dal 2009, con laboratori e la realizzazione completa di un videogioco. Un master di primo livello, con tanto di trasferta alla Game developer conference di San Francisco, è previsto anche allo Iulm. A Pozzuoli l’Istituto universitario digitale di animazione e videogiochi propone laurea triennale e stage.

Tra gli istituti privati ci sono l’Accademia italiana di videogiochi, la scuola BigRock, che forma specialisti di Computer grafica e realtà virtuale, la Digital Bros game academy a Milano per programmatori, designer e animatori digitali, la Event Horizon a Torino, la Vigamus academy a Roma.

«In Italia la situazione è paradossale: siamo dei forti consumatori di videogiochi ma siamo tra gli ultimi a produrne – spiega Laura Ripamonti, responsabile scientifica assieme a Dario Maggiorini del percorso video game della laurea magistrale di Informatica all’Università degli Studi di Milano – E pensare che i nostri ragazzi trovano lavoro ancor prima di finire il corso, la richiesta è molto alta, le aziende si coccolano gli studenti migliori già durante il percorso di studi». Proprio dall’università milanese è uscito Davide Soliani, arruolato come game designer dagli studios milanesi di Ubisoft e ideatore del videogioco «Mario + Rabbids».

Non solo un italiano su due è appassionato di videogiochi, ma di anno in anno, il pubblico diventa sempre più adulto. Invece, in base all’ultimo censimento 2016 di Aesvi (associazione editori sviluppatori videogiochi italiani), l’industria nazionale sta vivendo una fase ancora embrionale ma mossa da grande fermento. Operano più di 120 studi di sviluppo, che impiegano oltre mille persone, quasi i il 50% rispetto al precedente censimento del 2014 che contava 700 lavoratori.

La maggioranza delle imprese sono state costituite negli ultimi tre anni e circa un sesto sono start up. Che spesso si autofinanziano e cominciano con commesse di aziende, enti e musei per pagare le spese di progettazione di videogiochi da lanciare (o provare a lanciare) sul mercato: in media negli ultimi tre anni ogni studio di sviluppo ha lanciato tra uno e cinque videogiochi a testa. Si tratta di realtà piccole, concentrate soprattutto nel Nord Italia, che non riescono a competere con i colossi internazionali della console. Ma che non hanno assolutamente nulla da invidiare ai big in fatto di creatività e «tocco artistico» nei videogiochi.

Tra i marchi più conosciuti in Italia ci sono Milestone a Milano, specializzata nelle gare virtuali di auto e moto, Digital Bros, gruppo italiano quotato in Borsa, e Ovosonico, studio di sviluppo specializzato in trame emozionali e rompicapo, ideatore del videogioco «Murasaki Baby», con i tocchi stilistici alla Tim Burton, e di «Last day of june», che in quanto a poesia e componenti narrative nulla ha da invidiare ai videogiochi in testa alle classifiche mondiali.

Se si considerano le mille declinazioni che il linguaggio dei videogiochi può avere, è anche comprensibile perché le università stiano puntando a specializzare gli studenti. Stare attaccati alla console non significa più solamente lanciarsi in un passatempo ma vuol dire sempre più imparare: a studiare le proteine attraverso un puzzle e ad applicare le leggi della chimica, a simulare incendi nei boschi per allenare la protezione civile a far fronte alle emergenze, ad aiutare i bambini di cancro ad accettare e combattere la loro malattia.

Oltre agli «spara-spara» e ai giochi violenti, il mondo dei videogame propone anche una gamma sempre più ampia di giochi «pacifisti» in cui vincere significa salvare vite durante la guerra mondiale o in cui si stimola la fantasia senza avere nessuna missione assassina. Anzi, i produttori di giochi di tutto il mondo sono sempre più attenti all’aspetto della conoscenza oltre che dell’intrattenimento. Un esempio? Una delle ultime versioni di «Assassin creed» di Ubisoft è ambientata in Egitto e porta il giocatore in un viaggio virtuale tra Nilo, piramidi e sarcofagi, dedicano ampio spazio all’ambientazione storica. Insomma, è passato il tempo in cui il videogioco poteva essere considerato roba da ragazzini. In Olanda è diventato anche un mezzo per promuovere programmi di integrazione multiculturale.

Exit mobile version