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Fabio Ceresa: “L’opera deve fare sognare, basta allestimenti minimal”  

Fabio Ceresa: L'opera deve fare sognare, basta allestimenti minimal

di Pippo Orlando

L’opera deve fare pensare ma anche sognare, per questo bisogna recuperare con orgoglio la nostra tradizione scenografica e di costumi e smetterla con gli allestimenti minimal in jeans e maglietta alla tedesca“. Un ritorno alla tradizione predicato non da un anziano nostalgico della regia lirica, ma dal 37enne Fabio Ceresa, reduce dal successo della ‘Dorilla in Tempe‘ di Antonio Vivaldi, di cui ha firmato la regia per il Teatro Malibran di Venezia nell’ambito della stagione della Fenice, con Diego Fasolis sul podio. Il giovane regista, tra i più promettenti della sua generazione, non risparmia un affondo anche sulla visione ‘aziendale’ che la politica ha delle istituzioni culturali: “I teatri devono fare cultura e non solo venire incontro alle aspettative del pubblico perché legati ai risultati del botteghino. L’arte e la cultura vanno sostenute dallo Stato“.

Ceresa, giovane ma con una lunga esperienza sui palcoscenici italiani e non (dal 2008 al 2014 è stato aiuto regista alla Scala di Milano) e forte della collaborazione con i più grandi maestri (Patrice Chereau, Deborah Warner, Peter Stein, Luca Ronconi, Eimuntas Nekrosius), ha le idee molto chiare: “Non esiste un solo modo di fare regia d’opera, ogni regista ha il diritto e il dovere di portare la sua unicità e la sua lettura del capolavoro che mette in scena. Noi siamo chef e non cuochi”, dice all’Adnkronos con un parallelo culinario che rende perfettamente l’idea.

“Portare il nostro mondo interiore nello spettacolo è fondamentale, altrimenti – dice – saremmo di fronte a una messinscena computerizzata, uguale per tutti. Così come non c’è una maniera ‘giusta’ di mettere in scena un capolavoro, ma c’è invece una moltitudine di individualità: ci sono Carsen, Wilson, McVicar e Pizzi. Il mio estro e la mia visione – dice Ceresa – mi dicono che bisogna recuperare la grande tradizione italiana, immaginifica, della scenografia e del costume. Non capisco perché – si chiede – circa vent’anni fa si sia deciso che le regie si dovevano fare come nei teatri tedeschi: scene minimaliste e cantanti in jeans e maglietta. Una cosa che non condivido e che mi rievoca la frase profetica di Verdi quando disse di lasciare che i tedeschi facessero i tedeschi e gli italiani facessero gli italiani. Per me che sono italiano l’opera deve anche appagare gli occhi, deve fare pensare ma anche sognare“.

Ceresa confessa di amare molto il barocco e soprattutto Vivaldi: “Ho avuto la fortuna di dirigere ben tre opere sue, un record perché la produzione operistica del Prete Rosso non è molto conosciuta”. Ma ama anche Mascagni, del quale ha messo in scena il ‘Guglielmo Ratcliffe‘ nel 2015 al Wexford Festival Opera (con il quale ha vinto l’International Opera Award), e in genere la cosidetta Giovane Scuola. “E’ stato il ‘Mefistofele’ di Boito a farmi innamorare dell’opera da adolescente”, dice Ceresa, secondo il quale questo repertorio va interpretato in maniera diversa: “Mascagni non è verista ma simbolista – dice – il coro iniziale della ‘Cavalleria’ restituisce l’aria e i profumi della Sicilia, non una cartolina d’epoca”.

Quanto ai modelli, il 37enne regista lombardo indica Pier Luigi Pizzi: “Credo sia il vero padre nobile della regia italiana, tutto quello che c’è oggi lo dobbiamo a lui. Nel suo allestimento di ‘Morte a Venezia’ (di Benjamin Britten, ndr) è bastata una gondola a rendere tutto l’immaginario. Lui ha il dono della sintesi, che è poi la cifra del teatro perché se voglio la verosimiglianza guardo la tv“. E a questo proposito Ceresa affonda: “Venire incontro alla aspettative del pubblico è un errore, i teatri d’opera devono fare cultura, e lo Stato deve sostenere l’arte e farla esprimere senza che questa debba dipendere troppo dallo sbigliettamento“, dice Ceresa, in controtendenza con la moderna visione aziendale delle istituzioni culturali.

In ogni caso, per lui, giovane esperto dei linguaggi della comunicazione e grande utilizzatore dei social, il segreto per attrarre i giovani in teatro sta nel “rappresentare sul palcoscenico quello che si può vedere solo lì, senza scimmiottare cinema o tv. Un cambio di scena a vista, ad esempio, si può apprezzare solo in uno spettacolo dal vivo. Anche i social possono servire per passare informazioni – dice – perché un’immagine vale più di mille parole, e io che tra gli amici virtuali ho molte persone digiune di opera lirica, trovo sempre sorprendente notare come soprattutto chi non vive il teatro ne sia affascinato“, conclude.

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