Il suo fascino distante, pronta a tirarsi indietro se le domande le sembrano poco adeguate, Charlotte Rampling ha ricevuto l’Orso d’oro alla carriera, oggi a Berlino, e qui ha concesso alcuni frammenti della lunga esperienza sui set di registi che del cinema hanno fatto la storia, in una conferenza stampa alla Berlinale. C’è ovviamente anche molto cinema italiano, dal momento che l’attrice britannica ha agli esordi l’incontro con Luchino Visconti, per “La Caduta degli Dei”, nel 1969, – “sceglieva donne che gli ricordassero sua madre, scelse me, Romy Schneider” – ed è diventata una stella internazionale con “Il portiere di notte” di Liliana Cavani, nel 1963. Ma, sollecitata a parlare in italiano, non osa: “è vero che conosco l’italiano, non abbastanza però da poter esprimere qualcosa di importante”. Interrogata su attori e registi incontrati sul set, ha raccontato ad esempio che Paul Newman, “diversamente da quel che si penserebbe per la sua forte presenza scenica, era un uomo sensibile, molto riservato”. Il ritratto che ne esce è proprio quello di un timido. Dirk Bogarde “è stato un amico e un maestro, da lui ho imparato molto”. Con Francois Ozon – regista francese che le ha chiesto di fare più di un film, a partire da “Sotto la sabbia” nel 2000 e “Swimming Pool” nel 2003 – “si è creato subito un legame”, racconta, descrivendo un uomo “sempre sorridente e profondo, una miscela attraente”. “All’inizio lui era molto giovane, io ero già sopra i 50, lui aveva 32 anni. E cercava in me proprio l’esperienza di una donna della mia età”, il tema con cui voleva cimentarsi, “voleva la mia esperienza”. “Certe parti della vita che non abbiamo ancora conosciuto si possono esplorare attraverso il cinema”, e questo è quello che voleva fare Ozon, lasciandosi guidare da Charlotte Rampling. Qualcuno le ha chiesto anche di Adriano Celentano (“Yuppi du”, 1974), e l’attrice ha sorriso, “selvaggio, un mattacchione”. Alle spalle una carriera internazionale, affrontata in diverse lingue, ha poi spiegato di sentirsi “più a casa in Europa”, “ma mi sono divertita a New York”, ha detto citando il film di Woody Allen, “Los Angeles la sento invece più estranea”. C’è stato anche lo spazio per parlare del suo metodo di lavoro: “non direi di averne uno. Nel rapporto con i personaggi sono molto istintiva”. Vengono fuori dalla sceneggiatura, ha spiegato, “poi ci si mettono dentro anche i propri sentimenti, questo è recitare”, una “combinazione”, fra se stessi e il carattere che si interpreta. “Io non sono Hannah, ma devo capire cosa prova Hannah, elaborare il suo dolore”, dice ricordando il lavoro con Andrea Pallaoro. Premiata con un Orso d’argento per il ruolo in “45 anni”, di Andrew Haigh, nel 2015, l’attrice ha affermato di essere contenta di avere anche l’orso d’oro adesso. E alla Berlinale, con Dieter Kosslick “di cui ammiro il lavoro”, e dove ha presieduto anche la giuria nel 2006, ha vissuto “tanti bei momenti”.