Il Presidente, Angelo De Cata: «Bisogna azzerare le differenze dei SSR, e rafforzare la regia unica del SSN. Ai reumatologi e ai pazienti servono risposte, azioni condivise su tutto il territorio nazionale per far sì che né per i reumatologi né per i pazienti si ripresentino i disagi già visti nella prima ondata della pandemia. L’obiettivo è salvaguardare il benessere di tutti»
Roma, 27 ottobre 2020 – 1 o 20 sistemi sanitari? Il Collegio Reumatologi Italiani (CReI) non ha dubbi: uno, capace di coordinare tutte le Regioni e in grado di azzerare le differenze, che sono la causa del fenomeno delle migrazioni dei pazienti, perlopiù da Sud verso Nord, per tentare di raggiungere i servizi di una “sanità migliore”, e delle tante difficoltà incontrate dai malati in quest’anno su cui grava il peso dell’emergenza pandemica. Perché si sono visti rimandare gli appuntamenti per i controlli, allungare le attese per una prima visita, hanno dovuto fare i conti con la mancanza dei farmaci durante i primi mesi in cui l’emergenza ha colto tutti di sorpresa. E, a oggi, dopo l’ultimo DPCM, non sanno ancora quali tutele avranno sul lavoro in quanto pazienti fragili. Il problema della mancanza dei posti letti per i malati reumatici in alcuni centri ospedalieri, poi, non è da ultimo. La proposta del CReI è quella di istituire un Piano Nazionale per le Malattie Reumatiche, da valutare insieme a tutti gli attori coinvolti e alle Istituzioni. Intanto, il 25 ottobre, il CReI ha scritto al Ministro della Salute Roberto Speranza dicendo che i pazienti fragili hanno bisogno di supporto a tutto tondo e si rendono disponibile a mettere a servizio di tutti i centri reumatologici, gratuitamente, un software di telemedicina affinché i pazienti possano essere seguiti.
«L’emergenza sanitaria tuttora in corso ci ha messo davanti a un’evidenza, che non può passare inosservata: il 40% in più di ritardi nelle diagnosi a livello nazionale rispetto al 2019, come hanno mostrato i dati di un’ultima ricerca di APMARR condotta in collaborazione con WeResearch. Se poi si va a circoscrivere il dato alla sola area Sud del Paese, la percentuale arriva al 70%. È un fatto gravissimo per chi ha e per chi ancora non sa – perché non ha ancora ricevuto una diagnosi – che avrà a che fare con una patologia cronica: non poter dare un nome al proprio malessere, non poter iniziare delle cure tempestive e non poter continuare a fare i controlli e a vedere gli specialisti che ci seguono, ci fanno sentire soli e incompresi. Messi da parte, non considerati», premette Antonella Celano, Presidente di APMARR, Associazione nazionale persone con malattie reumatologiche e rare. Ma non è tutto: «Abbiamo avuto, e il problema sussiste ancora, tanta difficoltà a metterci in contatto con i nostri medici, e non perché il medico non avesse voglia di parlare con i pazienti, ma perché molti di loro erano e sono impegnati a gestire l’emergenza Covid. E noi malati reumatici? Esistiamo anche noi, non c’è solo il Covid, e come tutti quelli che hanno una patologia cronica abbiamo bisogno di essere seguiti».
«Gli specialisti territoriali dovevano essere rafforzati già prima dell’emergenza: è una richiesta che noi pazienti avevamo già avanzato. All’arrivo della pandemia ci siamo trovati tutti impreparati, ma dopo che il periodo più complesso si è allentato per qualche mese, si sarebbero dovute mettere in campo delle tutele per i malati cronici, che a oggi, non ci sono. Ora, con buona probabilità ci troveremo ad affrontare di nuovo molti dei problemi con cui abbiamo già avuto a che fare, ossia gli specialisti che vengono arruolati nei reparti Covid e che non possiamo raggiungere per essere visitati. Abbiamo perso tempo, si doveva agire con maggiore tempestività. Il Piano Nazionale delle Cronicità – PNC – non è ancora stato attuato», fa notare Silvia Tonolo, Presidente di ANMAR, Associazione nazionale malati reumatici. «Le differenze territoriali, presenti anche all’interno della stessa Regione, fanno sì che ne vada di mezzo anche la compliance, l’aderenza terapeutica. Tristemente noto è il fenomeno migratorio da un centro all’altro in cerca di un’assistenza più adeguata ai propri fabbisogni: questo vuol dire disagio per i pazienti, per i caregiver che devono accompagnarli e per il SSN e regionale. Le differenze territoriali hanno un costo elevato – sociale ed economico – per tutti. È ora di pensare e ragionare il sistema sanitario come un uno, un insieme di sanità e sociale, inscindibile, fatto di costi diretti e indiretti. Spesso, infatti, si dimenticano i caregiver, che per i pazienti pediatrici sono i genitori. Che le Regioni e che tutto il Paese sappia che noi non siamo solo farmacoterapia e ospedalizzazione», rimarca Silvia Tonolo.
C’è da fare, in fretta, anche alla luce dell’insegnamento che questo periodo complesso sta cercando di lasciare a tutti noi. Perché le malattie reumatologiche saranno destinate ad aumentare. Entro il 2060, infatti, si prevede che il numero di cittadini europei con età superiore a 65 anni aumenti da 88 a 152 milioni, con una popolazione anziana doppia di quella dei minori entro i 15 anni. Le malattie croniche colpiscono l’80% delle persone oltre i 65 anni e spesso si verificano contemporaneamente. La comorbilità è associata anche a un declino di molti aspetti della salute, come la qualità della vita, la mobilità, la capacità funzionale, con un conseguente aumento di stress psicologico, ospedalizzazioni, uso delle risorse sanitarie e mortalità. Gran parte dei problemi causati dalle malattie croniche sono prevenibili agendo su fattori di rischio comuni, come tabacco, alcol, alimentazione e attività fisica, insieme con la promozione della salute e con l’empowerment.
Le malattie reumatiche costituiscono un variegato insieme di circa 150 diverse condizioni, di diversa origine patogenetica, che interessano almeno il 10% della popolazione nazionale. Per credenza popolare vengono spesso considerate le patologie degli anziani, mentre indagini epidemiologiche e la pratica clinica quotidiana dicono sono caratteristiche dell’età adulta (18-65 anni), mentre solo poche di queste 150 condizioni interessano la terza età (artrosi, osteoporosi, polimialgia reumatica).
Quale insegnamento sta lasciando il Covid ai reumatologi e alla Reumatologia? «Che la Reumatologia non può appiattirsi, perché questa cosa ha creato delle problematiche enormi: molti dei reumatologi sono stati impiegati nei reparti Covid non potendosi dedicare pienamente ai loro pazienti cronici. Alcuni pazienti, per esempio, all’inizio della fase più stretta dei contagi, non hanno potuto più fare l’iloprost, un farmaco importante per chi ha la sclerosi sistemica: questo fatto ha anche voluto dire avere complicazioni impensabili se i pazienti sclerodermici avessero proseguito le loro cure. L’altro insegnamento è che la comunicazione tra tutti gli attori coinvolti nella cura dei malati reumatici è fondamentale, e non può subire ritardi. Si pensi al caso dei rinnovi dei piani terapeutici per la somministrazione dei biologici avvenuto con ritardo e di cui alcuni medici di base non erano a conoscenza. Sicuramente, la seconda ondata pandemica non ci coglierà impreparati su questo punto», premette il Presidente CReI, Angelo De Cata. Che aggiunge: «L’insegnamento che dobbiamo assolutamente tenere in considerazione è che i reparti di Reumatologia e gli ambulatori hanno un’importanza cruciale per i pazienti reumatici e che il medico di medicina generale è un anello di congiunzione cruciale per contribuire al raggiungimento del benessere di tutti gli attori coinvolti nella cura. Non si possono smantellare i reparti di Reumatologia, come sta accadendo in alcune realtà territoriali: questa cosa va corretta. Fino a che non si renderanno omogenee le differenze presenti tra le Regioni, si creeranno situazioni a sfavore, perlopiù dei malati. E questo, il nostro SSN non può permetterlo. I costi sarebbero altissimi, per tutti».
Disparità tra le Regioni, si traduce in disuguaglianze tra i cittadini che possono permettersi di rivolgersi ai privati, e cittadini che non possono permetterselo, tra le persone che abitano in Regioni con una sanità migliore e quelli che invece vivono in Regioni meno efficienti da questo punto di vista. «Le disuguaglianze al tempo del Covid hanno riguardato anche i territori, mettendo ancora una volta in evidenza le tante sanità del SSN. Ogni Regione si è mossa in modo diverso nella gestione dell’emergenza, con modalità spesso diametralmente opposte e non sempre garantendo il diritto alla continuità delle cure per chi non era malato di Covid», osserva Maria Vitale, senior project manager Agenzia di Valutazione Civica di Cittadinanzattiva, che propone di implementare la telemedicina e il teleconsulto, oltre che sottolineare quanto sia urgente «una riorganizzazione illuminata, partecipata e lungimirante, che porti a delocalizzare le cure, in modo da poter rimanere sul proprio territorio e domicilio quando possibile. Le decisioni politiche e i nuovi modelli organizzativi dovrebbero avere uno sguardo lungo, che porti benefici che vadano al di là di questa generazione e che tutelino quelle future».
Ragion per cui il CReI, oggi lancia l’idea di attuare un Piano Nazionale per le Malattie Reumatiche. Che cosa si chiede? «Anche a seguito degli ultimi incresciosi episodi che hanno creato disomogeneità nelle cure a scapito dei pazienti reumatici, come società scientifica abbiamo constato che c’è una necessità inderogabile: la competenza di razionalizzare tutti i livelli essenziali di assistenza e le prestazioni concernenti i diritti civili, sanitari e sociali garantiti su tutto il territorio nazionale deve spettare solo al Ministro della Salute. Chiediamo quindi la creazione di un tavolo di lavoro articolato, con l’istituzione di una commissione nazionale sulle malattie reumatiche a cui dovrebbero partecipare tutte le società scientifiche, le associazioni pazienti, gli operatori e gli opinion leader, insieme a economisti sanitari e statistici con il fine di garantire uguaglianza su tutto il territorio nella cura delle malattie reumatologiche. Con un Piano Nazionale sulle Malattie Reumatiche, esportabile in tutte le Regione e in tutti i territori italiani, si azzererebbero le disuguaglianze sia regionali che all’interno dello stesso territorio. Si avrebbero la creazione di PDTA per gruppi di patologia utilizzabile in ogni struttura e questo consentirebbe anche un follow up dei pazienti identico su tutto il territorio nazionale in grado di limitare il fenomeno delle migrazioni dei pazienti verso una sanità che considerano migliore. Questo permetterebbe anche di rilanciare una forma di reciproca assistenza tra le Regioni, cosa che sarebbe auspicabile non solo nei confronti delle problematiche reumatologiche. Il Covid ci deve lasciare come insegnamento che c’è urgenza di questa reciproca assistenza e non più di competizione, sterile e distruttiva. Basta prime donne, o la ricerca di voler dimostrare di essere i migliori. Qui c’è da fare, tutti insieme – politica, operatori sanitari, pazienti e operatori di economia sanitaria – per ottenere il risultato desiderato da tutti», conclude la Vicepresidente CReI, Gilda Sandri.