Lo dimostrano i risultati dello studio multicentrico REDUCE-AMI condotto dal 2017 al 2023 su oltre 5000 pazienti per valutare l’efficacia dei beta-bloccanti, farmaci di routine nel trattamento post-infarto. La ricerca, presentata al congresso dell’American College of Cardiology in corso ad Atlanta e appena pubblicata sul New England Journal of Medicine, ne mette in discussione il beneficio nel prevenire un secondo attacco di cuore o ridurre la mortalità nei pazienti meno gravi a cui, fino ad oggi, poteva essere consigliata questa terapia.
Atlanta, lunedì 8 aprile 2024 – È tempo di ridimensionare l’efficacia dei beta-bloccanti nel trattamento dei pazienti colpiti da infarto del miocardio. La terapia considerata uno dei pilastri nella cura di eventi cardiovascolari, è stata, infatti, messa in discussione nello studio REDUCE-AMI pubblicato sul New England Journal of Medicine e presentato al congresso dell’American College of Cardiology in corso ad Atlanta, secondo il quale l’uso di questi farmaci non ridurrebbe il rischio di morte o di infarto miocardico nei pazienti colpiti da questa patologia. “L’utilizzo dei beta-bloccanti nel post infarto è una pratica clinica consolidata. Si tratta di una classe di farmaci che agisce inibendo i recettori beta-adrenergici e inducendo la riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. L’efficacia terapeutica di questi farmaci si basa però, ancora oggi, sull’effetto dimostrato in studi clinici datati, condotti prima della diffusione delle attuali tecniche di rivascolarizzazione con lo stent, dell’implementazione sistematica delle statine, della disponibilità di efficaci farmaci per la prevenzione primaria e secondaria e delle moderne terapie antiaggreganti”, afferma Ciro Indolfi, Past-president della Società Italiana di Cardiologia (SIC). Da quando questinuovi trattamenti sono diventati accessibili, il valore della terapia con beta-bloccanti nei pazienti con infarto miocardico, senza insufficienza cardiaca, è stato messo in dubbio, ma fino ad oggi erano disponibili solamente studi osservazionali che fornivano risultati contrastanti”.
“REDUCE-AMI rappresenta, pertanto, il primo studio moderno sui benefici dei beta-bloccanti ed evidenza la mancanza di efficacia di questa terapia nel ridurre il rischio di morte o infarto nei soggetti colpiti da infartodel miocardio, trattati con angioplastica coronarica che hanno una normale contrattilità del cuore”, aggiunge Pasquale Perrone Filardi, Presidente SIC e Direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli.
LO STUDIO REDUCE-AMI
Lo studio REDUCE-AMI, randomizzato, multicentrico e“in aperto”, ha valutato l’efficacia della terapia con beta-bloccanti in 5.020 pazienti con età media di 65 anni, con infarto miocardico acuto trattati con angioplastica e con una normale funzionalità contrattile del muscolo cardiaco. La ricerca condotta da settembre 2017 a maggio 2023 in 45 centri in Svezia, Estonia e Nuova Zelanda, ha confrontato il decorso clinico del gruppo dei pazienti ai quali era stata prescritta una terapia con beta-bloccanti rispetto a quelli trattati senza questi farmaci. “I risultati hanno mostrato che, a circa 3 anni e mezzo dall’inizio dello studio, l’incidenza di decessi e di un secondo infarto non sono stati significativamente differenti nei due gruppi. Non sono state registrate differenze di rilievo neanche nel numero di ospedalizzazioni per fibrillazione atriale, per insufficienza cardiaca, ictus o per interventi di impianto di un pacemaker”, spiega Indolfi.
“A seguito di questo studio non sono però stati riscontrati segnali negativi riguardo la sicurezza del trattamento – chiarisce Perrone Filardi –, e riteniamo che le evidenze siano ancora a favore dei beta-bloccanti per i pazienti con infarto miocardico di grandi dimensioni, che presentano insufficienza cardiaca. Per i pazienti con normale contrattilità del cuore, questo studio stabilisce, invece, che non ci sono indicazioni che l’uso di routine dei beta-bloccanti sia vantaggioso. Potrebbe però essere troppo presto per escludere definitivamente questo tipo di terapia dagli strumenti a disposizione nella prevenzione secondaria e sono, pertanto, necessari ulteriori studi”.
Pressione alta, nuovo farmaco a RNA-messaggero la riduce con due iniezioni l’anno
A rivelarlo è lo studio KARDIA-2 condotto dalla Harvard Medical School sull’efficacia del nuovo farmaco e appena presentato al congresso dell’American College of Cardiology in corso ad Atlanta. La ricerca ha evidenziato che la innovativa terapia riduce la pressione in modo significativo con solo due iniezioni sottocutanee l’anno, aprendo la strada a un nuovo futuro per il trattamento del più comune e letale fattore di rischio cardiovascolare.
Atlanta, lunedì 8 aprile 2024 – I pazienti che non riescono a tenere a bada la pressione alta, seguendo con costanza le terapie prescritte, in futuro potrebbero non avere più alibi grazie a trattamenti di lunga durata che potrebbero combattere il problema dell’aderenza alle cure antipertensive. Una sfida sanitaria molto seria e importante se si considera che dopo circa un anno, fino il 50% dei pazienti abbandona la terapia antipertensiva e così cala anche la possibilità di proteggere cuore e cervello da infarto e ictus. Una prospettiva di miglioramento arriva oggi da un nuovo farmaco, Zilebesiran, attualmente in sperimentazione, al centro dello studio KARDIA-2 presentato al congresso dell’American College of Cardiology in corso ad Atlanta. “I risultati della ricerca sono molto incoraggianti: la nuova molecola interferisce conl’RNA-messaggero bloccando nel fegato la produzione di angiotensinogeno, una proteina che è in cima alla catena dei processi organici che alla fine provocano il rialzo dei valori pressori. Riducendo la disponibilità di questa proteina nel sangue si abbassa anche la pressione – spiega Pasquale Perrone Filardi, Presidente Società Italiana di Cardiologia e Direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’UniversitàFederico II di Napoli –. L’innovativa terapia si somministra con una semplice iniezione sottocutanea simile a quella che si fa con l’insulina e la sua azione dura a lungo perché è sufficiente ripeterla a distanza di 3 o addirittura 6 mesi. Con questa modalità di somministrazione, i pazienti che non riescono a seguire la terapia prescritta dal medico, non avrebbero più alibi e il trattamento sarebbe in grado di ridurre in modo significativo i valori di pressione massima senza bisogno di altre cure”.