di Alessandro Capezzuoli, funzionario ISTAT e responsabile osservatorio dati professioni e competenze Aidr
L’opinione è uno dei mali peggiori che affligge la cultura moderna. Per costruire
un’opinione, non serve nessun talento: basta leggere superficialmente qualche
notizia e trarre conclusioni affrettate e imprecise. Per costruire una cultura, invece, è
necessario studiare un argomento in profondità. Per costruire una cultura collettiva,
oltre a una buona dose di pazienza e di utopia, occorrono tempo e condivisione. Il
diritto all’opinione è diventato sacro, talmente sacro da lasciare poco spazio alla
cultura. L’Italia ormai è un Paese basato sulle opinioni; ovunque è pieno di opinionisti
da bar, esperti all’occorrenza di virus e di fisica nucleare, che tendono a ridicolizzare,
o, peggio, a banalizzare qualsiasi concetto richieda un’analisi approfondita Si
potrebbe dire che la professione attualmente più diffusa sia l’Esperto di opinioni.
Recentemente, mi sono imbattuto in un articolo scritto da un sociologo, che
rimproverava uno storico per aver fatto riferimento a dei “non meglio precisati fatti
storici”. Lo storico in questione era Alessandro Barbero, uno che di storia… come
dire… ha dimostrato di saperne qualcosina. Sicuramente ne sapeva più
dell’opinionista in questione. Lo smart working, al pari di numerosi altri temi che ho
trattato in passato, non fa eccezione: sono bastati pochi mesi per costruire milioni di
esperti di lavoro agile e di organizzazione del lavoro, che in realtà ne sanno ben
poco, ma dispensano consigli e pareri. Esperti che sono passati da anni e anni di
lavoro dietro alla scrivania alla formulazione di teorie sullo smart working.
L’emergenza sanitaria ha dato una forte spinta verso lo smart working, ma,
paradossalmente, ha anche dato una forte spinta verso il ritorno in presenza.
Semplicemente perché la tipologia di lavoro attuata in questi mesi non è stata affatto
smart; si è trattato perlopiù di un telelavoro, spesso disorganizzato e attuato con
mezzi di fortuna, attraverso il quale è stato possibile proseguire numerose attività,
spostando di fatto la postazione lavorativa dall’ufficio alle case dei dipendenti.
Eravamo pronti? Forse. Sicuramente non lo erano tutti i lavoratori e non con quel
metodo. C’è da dire, però, che il lavoro pubblico è rimasto imbalsamato per decenni
in un regime di telelavoro assistenziale, da cui avrebbe dovuto trarre insegnamento,
dispensato sulla base delle graduatorie, delle disgrazie e dei favoritismi. Poi c’è stato
(e c’è) il POLA, che avrebbe dovuto dare una spinta verso l’attuazione del lavoro
agile. Insomma, sulla carta avremmo dovuto essere pronti da un pezzo, nei fatti, in
molti casi, siamo stati colti di sorpresa e abbiamo improvvisato soluzioni di fortuna. Il
Ministro per la Funzione Pubblica, in una recente intervista, ha definito il telelavoro
emergenziale come “lavoro a domicilio all’italiana”: si tratta, a parer mio, di
un’opinione spericolata simile a quella del sociologo citato all’inizio dell’articolo..Ci
sono centinaia di numerosi esempi virtuosi che hanno dimostrato palesemente
l’efficacia di questo “prototipo” di lavoro agile, e che, seppur tra numerose
contraddizioni, ha migliorato l’organizzazione del lavoro e la produttività in molte
istituzioni. Uno scenario simile, meriterebbe una forte accelerazione, perché è
evidente che non cambiare adesso significherebbe non cambiare più. E a dover
cambiare non è soltanto lo svolgimento della prestazione lavorativa; è il consumo
delle risorse, è la spesa pubblica, è il modo di vivere le grandi città, è il modo di
spendere il tempo e di spendere il denaro, è l’economia delle periferie e dei piccoli
centri. Lo smart working porta con sé una serie di ricadute positive sulla collettività
che non possono essere ignorate.
Prima di addentrarci nei nodi irrisolti, che giustamente devono essere affrontati e
migliorati, è utile richiamare brevemente i pilastri fondanti della filosofia smart.
Filosofia tutt’altro che attuale, dal momento che risale addirittura agli anni ‘70.
Diciamo subito che lo smart working non è una modalità di erogazione della
prestazione lavorativa, è un modello organizzativo della società in cui il benessere
dell’individuo, inteso come parte integrante della collettività, prevale sulla sofferenza
lavorativa, e conseguentemente esistenziale, del lavoratore. Proprio perché un
lavoratore fa parte della collettività, il benessere dei singoli individui, attraverso lo
smart working, diventa benessere collettivo. In altre parole, favorire il benessere dei
lavoratori significa favorire il lavoro. Questo concetto semplice semplice è difficile da
far digerire all’opinione pubblica, che, da sempre, preferisce sadicamente un
lavoratore vessato e sofferente. Il bene più prezioso che hanno gli esseri umani,
benché si cerchi continuamente di dimostrare il contrario, non è il denaro bensì il
tempo. Lo smart working consente ai lavoratori di spendere il tempo nel modo
migliore possibile (e di continuare a spendere il denaro nel modo peggiore possibile).
Cosa è accaduto in questi mesi di emergenza? È accaduto un fenomeno che
probabilmente, tra qualche anno, verrà studiato sui libri di storia: il malessere
collettivo ha prevalso su qualsiasi forma di benessere individuale. Il tempo a
disposizione è stato più che altro una collezione di minuti tutti uguali, di confinamenti,
di momenti di paura e di interminabili comunicati televisivi in cui i temi principali
erano la morte e il terrore. La collettività è stata disgregata e la diffidenza verso il
prossimo ha prevalso sulla fiducia. Il prossimo è diventato potenzialmente pericoloso
per la salute pubblica e i comportamenti altrui, anche i più innocui, sono diventati
lesivi per la collettività. Questa evidenza è sempre stata sotto gli occhi di tutti:
guidare in modo spericolato o sversare rifiuti tossici nelle falde acquifere è una colpa
ben più grave rispetto a una corsetta senza mascherina. Eppure il sentimento di
diffidenza verso il prossimo alimentato dalla pandemia ha prevalso sul buon senso
ed è tuttora dilagante.Sfiducia, teniamo a mente questa parola. Venendo meno il
tempo e il benessere, il lavoro agile ha perso la sua natura: più che lavoro a
domicilio è diventato jail working, una specie di reclusione lavorativa che non c’entra
nulla con l’idea originaria. E su questo il Ministro Brunetta non ha torto: il lavoro agile
ha bisogno di un’organizzazione diversa. Ha torto quando sostiene (o fa finta di
sostenere) che i lavoratori pubblici, tutti, indiscriminatamente, hanno goduto di un
imprecisato lungo periodo di benessere e per questo devono tornare a soffrire in
ufficio. Questo atteggiamento induce a sospettare che l’oggetto del contendere non
sia la prestazione lavorativa ma una specie di questione personale tra il Ministro e i
lavoratori pubblici. Certo, probabilmente ci saranno state minoranze di lavoratori che
hanno approfittato del momento per tirare i remi in barca, ma a chi verrebbe in
mente di incendiare una casa per togliere di mezzo un formicaio? Ci sono degli
aspetti da migliorare, è vero, ma bisogna ripartire proprio da queste evidenze, per
gettare le basi di un’organizzazione del lavoro diversa. In primo luogo è necessario
superare la sfiducia collettiva. Lo smart working si basa su un patto di fiducia tra
datore di lavoro e lavoratore, decadendo la fiducia, decade anche il principio
fondante dell’accordo. I cittadini sono sfiduciati, divisi, hanno rancori e malcontenti,
spesso giustificati dalla perdita del lavoro, che riversano in modo indiscriminato su
coloro i quali stanno meno peggio. Dar seguito a questo sentimento, accontentare
l’opinione pubblica, sarebbe come incendiare la casa per accontentare gli inquilini
con la fobia per le formiche. Il dipendente pubblico è da sempre un bersaglio
privilegiato dell’opinione pubblica, per questo (sarà un caso?) il futuro dello smart
working è destinato a seguire due strade diverse. Nell’ambito privato, le aziende
hanno capito molto bene di trovarsi di fronte a una delle opportunità più ghiotte degli
ultimi anni: il lavoro agile permette loro di ottimizzare i costi e di dismettere le
costosissime sedi, mantenendo lo stesso livello di servizio e di produzione.
Nell’ambito pubblico, l’esigenza di contenere i costi viene sentita molto meno, forse
perché le risorse amministrate non appartengono agli amministratori ma ai cittadini.
C’è poi un’evidenza innegabile: se in molte amministrazioni centrali lo smart working
ha dato risultati che sono andati oltre le più rosee aspettative, nelle amministrazioni
locali la qualità dei servizi ha subito un peggioramento. Il disservizio si è verificato
perlopiù in quelle organizzazioni in cui la presenza dei lavoratori a contatto con il
pubblico è ancora essenziale. Mi riferisco ai piccoli comuni, ai servizi anagrafici, ai
servizi territoriali, insomma, a tutte quelle attività in cui la digitalizzazione è assente.
Ed è assente non solo a causa di un ritardo clamoroso delle istituzioni, ma è assente
anche per la riluttanza di una parte della popolazione a utilizzare strumenti digitali
per usufruire dei servizi pubblici. Più che disinvestire nello smart working, occorrerà
investire fortemente in diverse direzioni. In primo luogo nella cultura e nella
condivisione dei suoi principi fondanti, ma su questo aspetto, a differenza del
passato, una parte della classe dirigente ha preso coscienza delle potenzialità di
questo modello lavorativo ed è passata dall’altra parte della barricata, sostenendo, e
non più osteggiando, il lavoro agile come modalità di lavoro ordinaria. In secondo
luogo, sarebbe opportuno rafforzare le dotazioni informatiche della PA e investire
nella formazione digitale dei lavoratori: alcune amministrazioni lo hanno fatto e
risultati sono stati sorprendenti. Esiste una questione di natura giuridico-contrattuale,
che verrà affrontata nel corso dei prossimi giorni in un tavolo condiviso dal
Dipartimento per la Funzione Pubblica e l’Aran: tuttavia, non è l’aspetto contrattuale
a preoccupare i lavoratori, semmai è il contenuto del contratto.
Quali sono i punti su cui non si dovrebbe assolutamente tornare indietro? Occorre
opporsi fermamente alla reintroduzione delle graduatorie e dei punteggi basati sulle
invalidità e sulle esigenze famigliari. Sembra assurdo che si torni ancora a parlare di
questa eventualità, nonostante sia stato ampiamente dimostrato che il lavoro agile
non è una forma di assistenzialismo ma una forma di organizzazione del lavoro
basata su criteri differenti. Poi, bisogna evitare i limiti predefiniti di posti, che
generano soltanto malcontenti, una stupida competizione tra lavoratori e un’inutile
spaccatura tra presunti privilegiati e discriminati. Occorre monitorare gli obiettivi e il
loro raggiungimento e mettere da parte le assurde fasce orarie e i giorni predefiniti di
rientro in ufficio. Un’organizzazione del lavoro che privilegi gli obiettivi non può
prevedere le fasce di operatività, di contattabilità e di inoperabilità: sarebbe una vera
e propria contraddizione. L’unica deroga ammessa potrebbe riguardare quei
lavoratori che erogano dei servizi in orari prefissati. Infine, c’è una questione aperta
che riguarda la domanda e l’offerta di servizi in relazione alle competenze digitali
della popolazione: difficilmente si potrà attuare una diversa organizzazione del
lavoro, se i cittadini continuano a considerare i servizi pubblici come “luoghi” fisici in
cui recarsi e non come piattaforme digitali a cui far affidamento. La chiave di svolta
dello smart working è la trasformazione digitale, che, di fatto, rende l’ufficio uno
spazio inadeguato allo svolgimento di molti lavori.