Premio Maria Carta. E’ solo l’ultimo dei riconoscimenti vinti in questi anni da Patrizia Laquidara, cantautrice siciliana che da tempo vive e si muove artisticamente partendo dal Norditalia. Chi conosce la sua voce incantevole e la presenza scenica magnetica, come se mentre canta fosse immersa in una danza intima, non si è sorpreso di vedere il suo ultimo album C’è qui qualcosa che ti riguarda arrivare in finale come Migliore disco in assoluto alle prestigiose Targhe Tenco. E’ solo la più recente delle tappe di una carriera cominciata con il gruppo Hotel Rif e proseguita con risonanza internazionale. Ma Patrizia Laquidara è una bellezza delicata come il cristallo che ha l’acciaio dentro, lo si capisce da questa intervista in cui va in profondità del suo rapporto con la musica, con il mercato discografico e con la visione spesso stereotipata che si ha della donna e della femminilità nel pop.
Sei fresca vincitrice del Premio Maria Carta. Cosa significa per te questo riconoscimento?
“E’ un premio a cui tengo tanto e che sento come tra i più significativi della mia carriera. Non solo, ne sento la responsabilità. Sono consapevole infatti che Maria Carta è stata ed è una specie di dea madre in musica. Non è stata solo una grande cantante e interprete ma un’artista profonda e a tutto tondo, capace di intuire in tempi non sospetti il valore della musica tradizionale non in termini filologici ma come materia viva, a cui sapeva ridare vita come fosse nuova ogni volta che le dava la sua voce. Devo anche dire che trovo molti punti di contatto con questa artista. La sua voce, tellurica e intensa era ineguagliabile, questo è indiscutibile. Riconosco quella sua necessità di scacciare le ombre con il canto, di farsi medium in qualche modo, per cercare di cantare anche nel dolore, anche quando la voce sembrava soffocarsi dentro”.
Il tuo ultimo album C’è qui qualcosa che ti riguarda è stato totalmente autoprodotto attraverso crowdfunding ed è arrivato nelle cinquine finaliste delle Targhe Tenco. E’ un album che tocca l’indie pop e ha una scrittura ancora più centrata sulla forma canzone. Quanto spazio c’è oggi in Italia per voci e autrici femminili che vogliano affermarsi? Lo chiedo perché da noi sempre più spesso si cercano e incoraggiano le interpreti, voci “palestrate” che cantino brani scritti e pensati da altri.
“Negli ultimi anni molte cantautrici si stanno affermando e ritengo che ormai le donne, in questo settore almeno, non abbiano ragione di sentirsi non riconosciute. Lo so, lo dico un pò in controtendenza. Ma io penso che attualmente ci sia forse il problema contrario. A volte si dà valore a cose che non ne hanno solo per il fatto che davanti al pianoforte ci sia una donna e non un uomo. Più volte ho potuto constatare che un determinato progetto non avrebbe avuto lo stesso fascino e la stessa risonanza se fosse stato proposto da un uomo anziché da una donna. E’ come se ci fosse una discriminazione al contrario, che viene da una colpa da espiare; insomma, siamo ancora lontano dall’aver trovato un equilibrio. Mi spiego meglio: dopo secoli in cui la metà dell’umanità, quella femminile, è stata resa muta (come lo è ancora in molte parti del mondo) impossibilitata a manifestare la propria creatività, relegata in casa e resa organo di riproduzione per partorire e alleviare figli (penso a tutti quei casi di isteria che altro non erano altro, secondo me, che donne creative condannate a soffocare ciò che avevano dentro) io mi sento fortunata nel poter esprimermi, cantare, creare, nel poter usare parole che esprimono la mia esperienza di persona e di donna. Ma spero arrivi presto il giorno in cui si darà valore alla musica in quanto tale e non alla musica perchè fatta da una donna o perchè fatta da un uomo.
Canti in portoghese, musica brasiliana, brani tradizionali in arabo e greco, hai fatto un disco in dialetto altovicentino. Tanto eclettismo paga o rende più difficile farsi capire dal “mercato”?
“Entrambe le cose. Paga in termini personali, di crescita, di studio, che sono tutte cose che nutrono l’anima. Mi sono mossa in contesti così diversi e a volte distanti che certo non mi sono mai annoiata e questo mi ha permesso anche di fare molti live e collaborazioni. Per ciò che riguarda il mercato, invece, che ha bisogno di dare definizioni chiare e monolitiche, questo eclettismo ha creato sicuramente una difficoltà a me e a chi con me doveva lavorare e che quindi aveva la necessità di inserirmi in un settore per definirmi. Ma io sono sicura di una cosa: faccio canzoni. Fin da piccola ero un’appassionata di canzoni e di storie. Cioè della melodia e del racconto. La mia strada è scritta chiaramente nei miei dischi, in ciò che ho seminato. Indirizzo portoghese, Funambola e l’ultimo C’è qui qualcosa che ti riguarda sono dischi di canzoni scritte in italiano. Utilizzo un linguaggio personale, certo, che però è cantautorato, è musica leggera. Niente che si avvicini al jazz o alla musica folk, come qualche volta vengo definita. Certo, ho fatto anche folk, ho al mio attivo un disco come il Canto dell’anguana, dove cantavo in dialetto vicentino. Un disco che ho amato e che mi ha dato grandi soddisfazioni, tra cui una targa Tenco, ma è stata una tappa del mio percorso, non certo la strada maestra”.
Tu vieni dal Cet di Mogol. Che ricordo ha di quell’esperienza? Davvero dà strumenti e consapevolezza in più per la propria scrittura di canzoni?
“La mia esperienza col il Cet è stata particolare. A iscrivermi fu un mio amico e io mi trovai a mia insaputa ad aver vinto una borsa di studio che dava accesso a un corso particolare sulla musica tradizionale. Quindi mi trovai catapultata in un mondo che non conoscevo, nello studio delle musiche folk del nostro paese. Ho conosciuto lì Alan Lomax di cui non sapevo nulla fino ad allora. E’ stata un’esperienza ricchissima e profonda, a cui devo molto. Ma era un corso specifico su questo genere musicale, anche se ricordo una bellissima lezione tenuta da Mogol in cui ci spiegò come per lui nasceva la scrittura di un testo in una canzone. Io, canzonettara e appassionata di musica italiana fin da piccolissima ne fui molto emozionata e ancora adesso ne serbo un ricordo prezioso”.
Piccolo ragionamento sul corpo femminile. Le star americane lo mostrano anche nel modo più seducente, più scopertamente “sessuale” (Rihanna, Beyoncé, Nicki Minaj, Ariana Grande). Da noi in Italia questo è ancora un tabù, sono rarità il nudo elegante di Giorgia nel suo videoclip o quello in copertina di Paola Turci in un disco di diversi anni fa. Timore di essere capite male o moralismo-cattolico italiano che legge le pose sensuali come scorciatoie facili per farsi notare?
“No so se sono la persona adatta a rispondere a questa domanda. Nella copertina di Funambola e anche all’interno di copertina io appaio nuda. Non mi sono mai chiesta cosa implicasse la scelta di mostrarsi cosi. Io sapevo solo che quella nudità per me era necessaria per comunicare con un’immagine i concetti del disco: il sentirsi senza pelle, fragili e forti, l’esigenza di mettersi a nudo di fronte a se stessi e agli altri. Non ho mai pensato se potesse essere sensuale o no. Credo infatti che quella copertina sia poetica anche se mi espone nuda. Io credo che un’artista come ogni persona abbia il diritto e il dovere di esprimersi come vuole ma sarebbe auspicabile che lo facesse dando un senso, un senso profondo a ciò che fa. Che in poche parole si potrebbe anche definire così: usare l’intelligenza e non sempre e solo la furbizia”.