Davide Cerullo con Domenico Iannacone a Scampia
Pubblicato il: 19/11/2019 17:11
“Non sapevo cosa fosse il valore della vita. Quello che valeva per me in quella vitaccia era cosa pensava il boss di me: se io per lui valevo, se io per lui contavo, se io per lui ero utile, se lui di me si fidava. Se io gli davo fiducia”. Parla così Davide Cerullo, ex camorrista e ora scrittore, fotografo e animatore per i bambini che abitano alle Vele, a Scampia, una delle due periferie-simbolo del nostro Paese assieme a San Basilio a Roma. Periferie che sono protagoniste di ‘Che ci faccio qui‘, il nuovo programma di Domenico Iannacone (prodotto da Hangar Tv di Gregorio Paolini) che torna su Rai3 con quattro puntate speciali dal 2 dicembre in seconda serata, dopo ‘Report’.
Iannacone, con il suo stile sobrio, senza pregiudizi, da analisi sociologica, accompagna lo spettatore in luoghi dove il bene e il male si scambiano continuamente. Fin dalla prima puntata, intitolata ‘La famiglia’, ‘topos’ simbolo di un destino che segna fin dalla nascita: a volte, infatti, basta nascere in una famiglia perché la propria vita sia già segnata, infilata in un binario che sembra non concedere scampo. Mancanza di un tetto, miseria, violenza, prigione, morte, fanno spesso da sfondo all’esistenza di tante persone. Ma può succedere di rinascere una seconda volta, anche a Scampia: come è avvenuto proprio a Cerullo, che da ex camorrista oggi è uno scrittore di successo, tradotto anche all’estero.
“Questa serie è oltre ‘Gomorra’ e oltre il preconcetto – spiega Iannacone all’Adnkronos – perché è come se guardasse quei luoghi con occhi diversi. L’attraversamento che si fa è pietoso e non scandalistico e l’umanità che si incontra è un’umanità che vive ai margini e non ha voce in capitolo, tranne in qualche rara occasione. E Cerullo ne è testimone consapevole”. Secondo il conduttore, che ha dedicato ampio spazio al tema dei quartieri disagiati anche nei suoi precedenti programmi come ‘I Dieci Comandamenti’, “per risolvere il problema delle periferie la politica dovrebbe attraversarle. E invece c’è una distanza siderale tra quei luoghi e la politica che non sente il grido di dolore che arriva da quegli emisferi. Solo toccando si capisce come sanare le ferite delle periferie, parlarne non serve“, conclude.
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